A mettere in discussione la costruzione di una comune casa europea della democrazia, oltre alla crisi economica (o forse anche grazie ad essa) è sorto nell’aprile del 2011 un nuovo spettro: il varo in Ungheria, Paese membro dell’Unione europea dal 2004, di una costituzione ultraconservatrice possibile premessa di un governo autoritario all’interno dell’Unione stessa.
La cronistoria è, pressappoco, la seguente: nell’aprile del 2010, complice la scarsa credibilità pubblica del governo uscente, il partito conservatore Fidesz ottiene la maggioranza di due terzi in parlamento – proporzione non di poco rispetto, dato che essa consente a tale maggioranza di modificare la carta costituzionale senza l’approvazione dei partiti di opposizione; nel gennaio 2011, lo stesso mese in cui il premier Viktor Orbán assume la presidenza del Consiglio dell’Unione europea, viene varata una legge che sottopone al controllo dello Stato i mezzi d’informazione; la nuova costituzione viene poi approvata il 18 aprile del 2011; infine, una legge del dicembre dello stesso anno sottopone la Banca Centrale Ungherese al controllo del governo statale.
Le istanze più significative della nuova costituzione (quali sono desumibili da due articoli di Andrea Tarquini su “La Repubblica”, del 20 marzo e del 19 aprile 2011) rendono conto del nuovo corso della politica ungherese: in primo luogo, lo stato non è più chiamato “Repubblica ungherese” ma, più semplicemente, Ungheria”; il cristianesimo viene riconosciuto come valore fondante dello Stato nazionale (il documento costituzionale apre con un appello a Dio e un richiamo a Santo Stefano, primo re ungherese); si fa riferimento alla nazione come entità etnica, ma senza menzione alcuna dei diritti delle minoranze (e le fonti giornalistiche asseriscono che le rappresaglie contro la minoranza zingara sono all’ordine del giorno); viene altresì varata una procedura d’urgenza per l’approvazione di leggi che il Governo reputa “importanti”; infine, significativamente, vengono dati poteri speciali all’autorità di controllo dei media.
Di fronte a tale decisione di un governo europeo, attacco esplicito a un ordine di valori ancor più basilari rispetto alla realizzazione di un’Europa comune, non sembra errato affermare che il ruolo dei federalisti è principalmente divulgativo – e in un doppio rispetto. In primo luogo, chiediamo la Federazione (e in questo, almeno in linea di principio, le maggiori forze di governo cominciano finalmente a tenerci il bordone), ma chiediamo anche che le istituzioni che già esistono siano permeate da un fondamento ad oggi disatteso: la democrazia. Già una volta, nel 2000, l’Unione europea ha avuto a che fare con un governo in odor di autoritarismo: il governo austriaco con l’appoggio del controverso partito di Joerg Haider. In tale occasione, un comunicato stampa MFE sul numero di gennaio-febbraio dell’Unità europea titolava così: “L’ipocrisia non ferma Haider, la Costituzione europea sì”.
Oggi, come allora, non solo manca una costituzione democratica ed un vero Stato di Stati, ma anche le istituzioni europee non si possono dire compiutamente democratiche. Attualmente, l’unico organo dell’Unione eletto a suffragio universale è il Parlamento europeo, il quale non possiede ancora iniziativa legislativa (prerogativa della Commissione europea): con quale titolarità un’organizzazione simil-federale di Stati con un governo non del tutto democratico, per di più operante nel teatro storico della lotta per i diritti (ovvero il Vecchio continente), può tacciare di autoritarismo un parlamento democraticamente eletto (così nel 2000 come nel 2011-2012)?
La sensibilizzazione pubblica federalista non manca certo di rilevare lo stato dell’arte relativo all’Unione, che presenta questi ed altri paradossi. Siamo invece forse troppo restii a divulgare un vantaggio delle istituzioni comunitarie riscontrabile sin da ora: l’Europa comunitaria non è un peso, da un punto di vista economico; l’Europa comunitaria è una strepitosa possibilità di progresso per le regioni economicamente meno sviluppate. E ciò non rappresenta un risultato di poco conto per contrastare i nuovi governi nazionalisti.
Si possono facilmente reperire (anche dal sito ec.europa.eu) i risultati raggiunti dalle politiche di perequazione della regional policy, supervisionate dalla Commissione europea: confrontando le mappe geopolitiche coi PIL delle regioni europee, rispettivamente, nel 1998 e nel 2005, il successo dei fondi perequativi stanziati dall’Unione europea è evidente. Le migliori federazioni mondiali prevedono il livellamento delle disparità tra le regioni che le compongono: l’Unione europea, che a tale tipo di governo politico si ispira, non fa eccezione. Ciò a prescindere dagli ulteriori aiuti che una nazione può eventualmente ricevere.
Questa è, dunque, l’ipocrisia degli Orbán, nazionalisti ed euroscettici: con una mano bacchettano le istituzioni comunitarie perché “Noi non siamo una colonia dell’Unione europea” (così riporta nuovamente Tarquini), con l’altra prelevano dal FMI e dall’UE, nascostamente rispetto ai propri elettori, 12 miliardi di euro di aiuti.
Compito (divulgativo) dei federalisti contro i vecchi, risorgenti nazionalismi autoritari: sottolineare in blu, con la solita onestà intellettuale, le disfunzioni comunitarie; e, contemporaneamente, essere preparati a rispondere anche sulla razionalità economica della causa federalista. Parliamo alla mente, parliamo al cuore. Ma parliamo anche al portafoglio – che, di questi tempi, è vuoto. Gli altri due, si convinceranno così più agevolmente.
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