Il Gruppo Spinelli verso gli Stati Uniti d’Europa: un battesimo del fuoco

, di Paolo V. Tonini

Il Gruppo Spinelli verso gli Stati Uniti d'Europa: un battesimo del fuoco

L’appena fondato Gruppo Spinelli lancia la prima conferenza nelle aule dell’Europarlamento a Bruxelles il 12 gennaio 2011. “Gli Stati Uniti d’Europa verso una società transnazionale”. Relatori Joschka Fischer (ex ministro degli esteri tedesco) e Jean-Marc Ferry (filosofo francese). Moderatore Daniel Cohn-Bendit (co-fondatore del Gruppo Spinelli e co-presidente del Gruppo dei Verdi).

Quale futuro attende questa stanca e vecchia Europa? Questo sembra l’interrogativo, perennemente attuale, che il mondo ci pone oggi in maniera sempre più pressante. L’accelerazione dei cambiamenti è evidente. Ciò che forse lo è un po’ meno è che gli Europei non possono più permettersi di eludere il problema con vaghe, incongruenti soluzioni. A rispondere provano allora coraggiosamente i membri del Gruppo Spinelli all’Europarlamento, che ricompattano e inquadrano le forze federaliste europee, dispersesi a seguito delle ultime elezioni del 2009.

Gli obiettivi sono chiari, i mezzi anche. Si parte dal ‘Manifesto’ per arrivare al ‘bollino Spinelli’, sorta di marchio di qualità democratica e federalista da applicare agli atti normativi dell’Unione e dei singoli Stati, ai ‘vertici ombra’, organizzati per proporre chiare alternative politiche all’attuale establishment, passando per gli ’Spinelli Debates’, incontri fra relatori di assoluto prestigio per rimettere in moto la dottrina politica federalista a livello continentale: un laboratorio teorico, in altre parole.

Il battesimo del fuoco è avvenuto la sera di mercoledì 12 gennaio in un’aula gremita dell’Europarlamento di Bruxelles, ed è stato un successo. Daniel Cohn-Bendit, co-presidente del Gruppo dei Verdi al Parlamento Europeo sedeva fra Joschka Fischer, ex ministro degli esteri tedesco e Jean-Marc Ferry, filosofo francese. Il tema non poteva che essere più caldo “The United States of Europe – Towards a Transnational Society”.

Dire aujourd’hui que l’Europe va mal ce n’est que un euphemisme”. Cohn-Bendit non usa mezzi termini mentre si rivolge a più di cinquecento partecipanti, fra cui un centinaio di Eurodeputati, membri della Commissione e, soprattutto, cittadini, seduti dove capita, fra gli scranni del Parlamento o appoggiati ai muri dell’aula, sotto le alte vetrate delle cabine d’interpretazione.

Per penetrare il significato di quelle parole non è sufficiente scorrere, oggi, le rassegne stampa delle più influenti testate nazionali, perché la loro ragione parte da lontano. L’osservatore disattento potrebbe, infatti, reagire con una qualunquistica scrollata di spalle, giacché la parola ‘crisi’ è sempre stata associata all’idea di Europa fin dalla nascita delle Comunità, più di mezzo secolo fa. Nulla di più sbagliato. Il problema c’è, ed è serio, anche se non sembra più quello di questionare sull’esistenza, o meglio, sulla necessità dell’Unione (quanto distante ci pare il vecchio De Gaulle!), quanto piuttosto quello di riempire questa necessità di significato.

Il décalage cui stiamo assistendo fra la concezione di Europa che sta dominando e la crisi di interesse delle popolazioni è il riflesso della cecità di svariati leader nazionali che non si rendono conto che dubitare della, o apertamente maledire la cessione di sovranità da Londra, Parigi, Berlino a Bruxelles è ormai una barzelletta da mondo globale, in cui la vera sovranità sta già transitando dalle sponde atlantiche a quelle pacifiche.

“L’Europa manca d’iniziativa dal lato politico” rincara il co-presidente dei Verdi. E non si può definire tranchant l’ex-ministro Fischer quando afferma che mentre siamo impantanati in sterili discussioni è il mondo a correre più veloce di noi, e non vice versa. “Quattro secoli di egemonia trans-atlantica stanno per terminare. È (quasi) spassoso vedere come gli Europei si preoccupano di perdite di sovranità all’Unione quando tutti quanti noi la stiamo perdendo, giorno dopo giorno, in favore delle potenze emergenti”. E non è tutto. “Non è più lo zio Sam [che sta aiutando l’Europa, acquistando il debito sovrano degli Stati] bensì i vecchi zii Cinesi e asiatici”.

Nonostante il quadro inquietante, delle idee chiare ci sono. Dal lato politico-istituzionale, più volte si è affermata la necessità di avviare e rafforzare una vera cooperazione fra le assemblee legislative locali e nazionali, restando all’Europarlamento il ruolo di clé de voûte. Il cittadino deve sentirsi rappresentato dalle e partecipe nelle istituzioni, chiudendo così il notorio deficit democratico europeo. Per fare questo un sistema coordinato di media europei, non dipendenti dagli angusti confini nazionali, che troppo spesso distorcono lo sguardo del giornalista con l’opaca lente della raison d’etat, deve essere conseguentemente costruito.

Nel frattempo, l’attenzione dei media locali e nazionali deve essere focalizzata sugli sviluppi interni ed esterni dell’Unione europea, che dovrebbero infine essere seguiti e diffusi in tutti i paesi del Continente. La posizione dei partiti politici non deve essere poi sottovalutata. Per Ferry servono veri e propri organismi politici europei, mentre la lotta verso le elezioni pan-europee del Parlamento deve ancora essere seriamente intrapresa.

Ma, in fondo, i problemi principali di credibilità di una società ormai transnazionale si risolvono nelle domande e nei bisogni dei cittadini, che non riescono a trovare risposte nelle vecchie strutture statali, e spesso rigettano quelle europee, malamente conosciute e dipinte dalle prime con le tinte fosche di una palingenesi dei mali di oggi. Le cose non stanno così, e l’ex-ministro Fischer più volte ha evocato la necessità di un governo economico europeo reale e forte, capace di difendere l’Euro e garantire stabilità a redditi e pensioni. Unità di bilancio e di contabilità nazionale, o, meglio, federale.

Da ultimo, non vanno dimenticate le posizioni diplomatiche dei singoli paesi che, spesso non coordinate fra loro, lasciano i problemi di frontiera non risolti o aggravati, e dovrebbero cedere prestigio e competenze al livello Unitario. Insomma, sembra corretto concludere che la risposta sia una sola: più Europa.

Scettico però è il filosofo Jean Marc Ferry, il quale non condivide le posizioni di Fischer in merito ad un’unione federale europea. Per lui lo scollamento fra la ‘nazione’ e lo ‘stato’ appare insormontabilmente ostile ad una Federazione europea in grado di attirare motivazioni e spiriti di cittadini di nazioni (tanto?) diverse.

Tuttavia, che il tempo di un approccio tecno-burocratico alla costruzione dell’Europa sia tramontato, e che ci sia bisogno di pompare legittimazione democratica nelle ferrose condutture dell’Unione sembra un’esigenza non solo chiara, ma irrinunciabile. Allora non sarebbe forse stato sbagliato ricordare all’illustre filosofo ciò che un altro grande francese scrisse più di duecentocinquant’anni fa: “lorsq’on veut changer les moeurs et les maniere, il ne faut pas les changer par les lois: cela paroìtroit trop tyrannique: il vaux mieux les changer par d’autres moeurs et d’autre manieres” [Charls Loius de Secondat, barone di Montesquieu, Lo spirito delle Leggi, XIX, 14].

Insomma, la battaglia che veramente conta, quella per le idee e, in questo caso, per gli Stati Uniti d’Europa resta aperta e la sua avanguardia politica sedeva decisa a non cedere. Non ci resta che sperare che Guy Verhofstadt e Daniel Cohn Bendit facciano buon uso del nome che hanno scelto, quello di Altiero Spinelli, e che, per quanto ci riguarda, non siano i soli a portare quella bandiera.

Immagine: Guy Verhofstadt e Daniel Cohn-Bendit, esponenti di punta del Gruppo Spinelli. Fonte: Flickr

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