Il pelago e la riva

, di Giorgio Anselmi

Il pelago e la riva

Difficile unire in una sola analisi le elezioni che si sono svolte in vari Stati in questo scorcio di primavera: in Grecia, in Francia, in Italia, in Germania. Difficile per la diversità dei paesi coinvolti. Difficile per il livello delle consultazioni: locali, regionali, nazionali. Senza contare che nel frattempo si è svolto anche il referendum sul fiscal compact in Irlanda. Si può tentare, tuttavia, una volta concluso questo lungo ciclo elettorale con le nuove elezioni politiche in Grecia e con i due turni delle legislative in Francia, di fornire qualche indicazione per comprendere i messaggi giunti dall’elettorato e le prospettive future.

Disorientamento: questo ci sembra il termine più appropriato per definire il comportamento degli elettori sotto le più varie latitudini. Un sentimento che si è espresso in tre differenti modi: 1) votando per i partiti di opposizione; 2) scegliendo forze politiche nuove e non di rado estremistiche o populistiche; 3) disertando i seggi. Non è certo un caso che nei paesi più solidi, come la Francia e la Germania, la prima opzione sia stata la più seguita, anche se non sono mancati i consensi per forze antisistema come il Front National di Marine Le Pen o il Piratenpartei, i cui esponenti sono entrati nel parlamento del Nord Reno - Westfalia. Quelle forze antisistema che si sono invece affermate in Grecia nella prima tornata elettorale, al punto da impedire la formazione di una maggioranza e da dover richiamare gli elettori alle urne. La probabile sorte dell’Italia se nello scorso autunno si fosse seguita la stessa strada invece di dar vita ad un governo di responsabilità nazionale. Del resto, i risultati delle amministrative sono lì a confermarlo. Il sistema elettorale ha permesso che si eleggessero ovunque dei sindaci con delle solide maggioranze. Ma dietro questa immagine rassicurante c’è il baratro di una frammentazione ed estremizzazione populistica dell’elettorato che renderebbe il Paese ingovernabile. Eppure non mancano degli irresponsabili che chiedono le elezioni in autunno. A destra con la speranza di limitare i danni facendo il verso a Grillo. A sinistra per cogliere una vittoria che sembra a portata di mano. Non tanto per meriti propri, ma per la situazione caotica degli avversari. Col rischio concreto per i vari Bersani, Di Pietro e Vendola di diventare quel che i francesi chiamano icasticamente un cocu de la victoire. Il bel risultato ottenuto con la sua corsa alle elezioni da Antonis Samaras, il leader di Nuova Democrazia che in Grecia ha fatto cadere il governo Papademos per poi trovarsi vincitore in un parlamento senza maggioranza. Solo la paura del baratro ha spinto gli elettori greci ad ingoiare il rospo nelle seconde elezioni politiche.

«Si è notato che l’uomo, trovandosi di fronte ad un pericolo incombente, resta di rado al suo livello abituale: si eleva molto al di sopra, o cade al di sotto. La stessa cosa accade ai popoli. I pericoli estremi, in luogo di elevare una nazione, le danno talvolta il colpo di grazia: ne sollevano le passioni senza guidarle e ne turbano l’intelligenza, invece di illuminarla.... Ma presso le nazioni come presso gli uomini, è più comune vedere nascere virtù straordinarie dall’imminenza stessa dei pericoli». Perché si realizzi la seconda condizione ipotizzata da Tocqueville, è però necessario che gli uomini come le nazioni prendano innanzi tutto atto di trovarsi di fronte a «pericoli estremi». Ebbene, nonostante il prolungarsi ed anzi l’aggravarsi della crisi, è proprio questa consapevolezza che manca in Occidente. Sull’una e sull’altra sponda dell’Atlantico. Stiamo vivendo uno di quei passaggi epocali che ridisegneranno il volto del mondo. I leader dovrebbero avere il coraggio di Colombo, che di fronte alla ciurma ammutinata invitò i caporioni della rivolta a recarsi nelle stive per verificare che non c’erano acqua e viveri necessari per tornare indietro. Invece si limitano a seguire i sondaggi, indicando il finto approdo delle rive nazionali. Il vento della globalizzazione ci ha spinto oltre le colonne d’Ercole. Tutti i privilegi su cui l’Occidente ha costruito la sua prosperità, il suo modello di sviluppo, la sua stessa decantata democrazia vengono messi in discussione. Ce lo ricordano ogni giorno le statistiche, la demografia, le fabbriche che chiudono, i milioni di disoccupati. Ce lo ricordano i cittadini sempre più disorientati e senza punti di riferimento.

I federalisti sapevano che si sarebbe arrivati a questo punto. Da più di settant’anni. Dal Manifesto di Ventotene. Inutile però menarne vanto. Con tutto il rispetto per Cassandra, non è questo il nostro ruolo. A «quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago alla riva, si volge all’acqua perigliosa e guata», dobbiamo ricordare che «convien tenere altro viaggio». Se non attraverso l’inferno, dobbiamo passare sicuramente per il purgatorio. Ma soprattutto dobbiamo indicare l’unica riva che ci resta. Quella della Federazione europea. E mettere insieme tutti quelli che sono disposti a battersi per giungere a quell’approdo.

Questo articolo è l’editoriale del n. 3/2012 de L’Unità Europea.

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