L’autorizzazione alla fusione tra Alstom e Siemens è stata negata dal Commissario danese alla concorrenza Margrethe Vestager. Una decisione ineccepibile, secondo le logiche del diritto dell’Unione Europea, che prevede una competenza esclusiva per la regolazione della concorrenza sul mercato europeo, volta a tutelare i cittadini europei contro abusi di posizioni di monopolio.
Una decisione che appare allo stesso tempo paradossale in un mercato globale ben più ampio di quello del Vecchio Continente.
Da qui la questione che diventa sempre più cruciale e ineludibile: è ancora possibile avere una visione del mercato limitata alla dimensione europea e, sulla base di quella, impedire la formazione di colossi produttivi e finanziari in grado di competere sul mercato mondiale? Se da un lato la Commissione ha infatti tutelato il diritto del cittadino europeo di difendersi da un potenziale monopolio, ha anche indubbiamente danneggiato le prospettive competitive globali di una industria europea. Possibile che non sia possibile allo stesso tempo garantire i cittadini europei e la capacità competitiva globale delle nostre (di noi europei) imprese? Credo che si debbano distinguere tre aspetti in questa vicenda.
Il primo è legato alle scelte politiche passate. Nei primissimi anni Novanta sopravviveva ancora l’ipotesi di dare all’Europa delle competenze in ordine alla politica industriale. Il Libro Bianco di Delors del 1993 su Crescita, competitività, occupazione era esattamente il tentativo (disperato, tardivo) di individuare e promuovere settori strategici di investimento a livello europeo per meglio resistere ad una competitività globale che si preannunciava sempre più agguerrita. Come è noto, il documento venne accantonato (per varie ragioni che non starò qui a ricordare) e la politica industriale europea si ridusse alla sola politica di tutela della concorrenza sul mercato unico europeo. Una competenza esclusiva della UE, che ha dato buoni frutti, difendendo spesso il cittadino-consumatore dagli abusi di potenziali posizioni di oligopolio e monopolio. Ma non è una politica industriale. Non si fa politica industriale semplicemente difendendo la concorrenza (o meglio, la si fa solo in negativo); soprattutto se le imprese sono costrette poi a competere su un mercato mondiale dove la concorrenza è con colossi che si muovono in modo decisamente più spregiudicato. Il mercato delle infrastrutture e dei vettori ad alta velocità è mondiale. Ogni paese cerca di dotarsi di linee ad alta velocità e si rivolge quindi a chi è in grado di fornire le garanzie migliori, che spesso (anche se non sempre) dipendono dalla capacità di fare massa critica, ottimizzando le risorse in ricerca e sviluppo (decisive per la sopravvivenza in quel settore), produzione, commercializzazione.
E qui veniamo al problema della necessità di abbracciare una governance multilivello. Una politica industriale non più essere condotta, oggi, a livello meramente nazionale. La si può fare in alcuni settori; come in alcuni settori si possono e si dovrebbero fare politiche industriali (o meglio perseguire strategie di sviluppo) locali. Ma in un mercato globale, sul quale si confrontano competitors globali di dimensione colossale (soprattutto in ambito digitale) come Amazon, Google, Alibabà, Apple, Microsoft, ma anche in altri ambiti (Nestlé, Wal-mart, Coca-Cola, JPMorgan, etc) non può mancare una politica industriale europea. Il Progetto Galileo, che è stato lasciato languire per decenni, doveva essere una risposta a questa esigenza. Il progetto Airbus, per contrastare la concorrenza Boeing, aveva lo stesso fine. Comminare multe a Google per abuso di posizione dominante è stato un grande risultato per il cittadino europeo. Ma lo sarebbe ancora di più se fosse il preludio alla creazione di un polo di ricerca e sviluppo di piattaforme digitali in Europa, in grado da confrontarsi alla pari coi colossi americani e quelli emergenti cinesi e russi. Mettere in campo tutte le difese giuridiche per tutelare il cittadino europeo dagli abusi dei monopoli non può e non deve aver nulla a che fare con la necessità di creare poli produttivi, finanziari e di ricerca a tutti i livelli ai quali, in ciascun settore, il mercato di riferimento lo impone, da quello locale a quello europeo.
C’è tuttavia un terzo aspetto connesso con questa vicenda. Ed ha a che fare con la possibilità di avere o meno un’Europa a trazione comunitaria. Francia e Germania, come ha dimostrato il rinnovato Accordo di Aquisgrana, smaniano (apparentemente) per procedere oltre nell’integrazione europea; ed intendono farlo con una regia intergovernativa, non col metodo comunitario (o indipendentemente da esso). È un paradosso interessante, perché il metodo comunitario teoricamente dovrebbe essere più efficiente e democraticamente legittimato a compiere scelte collettive europee, rispetto a quello intergovernativo. Ma è anche vero che procedere a 28 (o a 27, vedremo a breve) verso una maggiore integrazione è praticamente impossibile in un contesto decisionale in cui l’unanimità è ancora la regola principale di scelta collettiva sulle questioni più importanti. Legittimo quindi (in una prospettiva europea) che due grandi paesi cerchino di forzare la mano a Bruxelles su una strategia condivisa di posizionamento sul mercato competitivo globale. Può darsi che l’Europa comunitaria sia arrivata al capolinea, soprattutto se con le prossime elezioni europee si dovesse palesare una maggioranza che per rimanere in piedi è costretta a strizzare l’occhio ai nazional-sovranisti. Ma anche i governi, finora, non hanno dato davvero prova di voler procedere verso una maggiore condivisione della sovranità. La domanda che si apre con questa vicenda è allora se Francia e Germania, senza le quali indubbiamente nessun avanzamento del processo d’integrazione europea è possibile, saranno in grado di trainare un nucleo di paesi in una sorta di avanguardia che rinnovi lo spirito di condivisione della sovranità che aveva portato negli anni Cinquanta ai primi passi delle comunità europee.
C’è però un altro elemento critico: storicamente, l’Italia ha sempre dato un contributo cruciale per consentire di individuare i compromessi necessari al motore franco tedesco di trovare un’iniziativa cantierabile per compiere un salto nell’integrazione europea. L’assenza dell’Italia non solo dai negoziati, ma anche dalle discussioni fra i due paesi (anche in altri ambiti, si pensi al tema della riforma della governance economica europea, che pure è per noi più che per Francia e Germania essenziale), non solo tiene fuori il paese dai dossier che contano, ma rischia di risolversi in una clamorosa e pericolosissima mediazione mancata, che può contribuire al mantenimento dello status quo (che ci penalizza) e all’indebolimento della formazione di un nucleo strategico più coeso in Europa.
In questo senso, il governo italiano (che vuole smantellare proprio l’idea di una maggiore condivisione della sovranità come elemento fondante dell’integrazione europea) fa benissimo a prendere le distanze dai due alleati storici; il problema è che lo fa contro gli interessi degli italiani.
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