“Una bugia fa in tempo a viaggiare per mezzo mondo mentre la verità si sta ancora mettendo le scarpe”
Già in campagna elettorale i due partiti risultati vincitori nelle elezioni del 4 marzo hanno fatto affidamento su questa amara constatazione di Mark Twain. Molti si sono illusi che, una volta raggiunto il potere e formato il governo, i nostri eroi si sarebbero dati una calmata e non avrebbero esposto a rischi eccessivi un Paese già gracile, uscito da poco da una lunga crisi economica, pieno di storture e di magagne di antica origine. Si è assistito invece ad un crescendo di inverosimili sceneggiate, capriole, giravolte, contorsioni, funambolismi.
La campagna d’estate, se così possiamo chiamarla, si è svolta soprattutto contro gli immigrati, su cui si sono scaricate ad arte e con mosse ben studiate tutte le ansie e le paure delle componenti più deboli e più indifese della nostra società. Messe da parte le mirabolanti promesse elettorali della Lega, come quella di rimpatriare in pochi mesi mezzo milione di persone, la maggioranza ha ripiegato su false soluzioni, come l’abolizione della protezione umanitaria e la restrizione del sistema di accoglienza gestito dai Comuni, che finiranno per aumentare il numero degli irregolari e per spingerli nelle mani della criminalità organizzata.
Del resto, se si considerano prima il voto dei parlamentari europei di Lega e M5S sulla riforma del Regolamento di Dublino e poi le prese di posizione del Governo Conte nelle riunioni del Consiglio dei ministri e del Consiglio europeo dedicate allo stesso tema, non si fa certo peccato a pensare che la questione immigrazione sia usata strumentalmente dall’attuale maggioranza per opporsi a quelle soluzioni europee che svuoterebbero il bacino dei facili consensi ottenuti a suon di slogan e di menzogne.
L’ultima conferma di questa miope ed autolesionista svolta politica è giunta con l’incredibile rifiuto di sottoscrivere il Global Migration Compact promosso dalle Nazioni Unite e mirante a definire un quadro multilaterale e mondiale per la gestione di un fenomeno strutturale e di ampia portata che ci accompagnerà nei prossimi decenni. Lasciamo perdere le misure più spicciole, ma improntate alla stessa logica punitiva, come l’odiosa tassa sui trasferimenti di denaro da parte degli immigrati.
Il vero capro espiatorio che ha unito fin dall’inizio le due forze politiche è stata però l’Europa. Sono ben note le vicende che hanno segnato la formazione del governo, gli scontri verbali sempre più accesi con la Commissione europea, le accuse rivolte anche all’interno a tutte le istituzioni e le autorità nazionali che si sono permesse di fare le pulci a programmi irrealizzabili e a previsioni fantasiose. Com’era facile immaginare fin dalle avvisaglie estive, quella che potremmo chiamare la campagna d’autunno si è svolta durante la sessione di bilancio. Superate le obiezioni e le precauzioni di quei pochi ministri che hanno un qualche senso della realtà e delle compatibilità economiche, i due Vicepresidenti del Consiglio hanno ingaggiato, in qualità di azionisti di maggioranza della compagine governativa, una aperta sfida alle regole europee su tre diversi fronti: superamento esplicito delle soglie del deficit; crescita economica sovrastimata rispetto a tutte le previsioni delle istituzioni e delle agenzie nazionali ed internazionali, pubbliche e private; infine, una manovra espansiva fondata quasi esclusivamente sulla spesa corrente e non sugli investimenti.
La provocazione voluta e cercata, perché di questo si è trattato, non poteva che essere respinta al mittente sia dalla Commissione che dagli altri governi, in particolare da quelli dell’Eurozona. I mercati, già molto scettici sulle scelte dell’autoproclamato Governo del popolo e divenuti ancor più sensibili per altre turbative generate dal contesto internazionale, hanno subito preteso un premio crescente per il rischio Italia, seguiti dagli stessi risparmiatori italiani, sempre più titubanti nel sottoscrivere i titoli di un debito pubblico fuori controllo. A quel punto al Governo non rimanevano che due strade: ridimensionare le proprie pretese ed accettare un confronto costruttivo con la Commissione per poter continuare a pagare stipendi e pensioni; portare la sfida fino al punto di farsi estromettere dall’Unione monetaria, per poter così addebitare all’Europa ed ai famosi poteri forti quel colpo di stato monetario che i teorici del Piano B non hanno mai smesso di coltivare. I costi enormi di questa seconda ipotesi, la discreta ma ferma e costante opera del Presidente della Repubblica, le stesse rimostranze e preoccupazioni delle maggiori categorie produttive hanno infine convinto il Governo a più miti consigli.
L’accordo con la Commissione non è però che un primo passo, a cui dovranno seguirne altri, ancor più dolorosi per i nostri venditori di illusioni. Per di più il contesto economico internazionale, con le forti pulsioni protezioniste dell’Amministrazione Trump, il rallentamento di quel motore della crescita globale che è stata finora la Cina, il crollo del prezzo del petrolio e di altre materie prime, le brusche cadute di alcuni listini azionari, non promette certo di fornire del carburante ad un’economica italiana che negli anni della crisi si è retta grazie alle esportazioni.
Nei mesi scorsi il Movimento Federalista Europeo (MFE) ha messo in cantiere una serie davvero notevole di iniziative per combattere menzogne e falsificazioni, aprire gli occhi alla gente, mobilitare l’opinione pubblica, richiamare la classe politica ai propri doveri e alle proprie responsabilità. Ci aspettano mesi ancor più impegnativi, in cui dovremo avere l’incrollabile fermezza di Amleto: parleremo e agiremo anche se l’inferno stesso si spalancasse per ordinarci di tacere.
Due parole, infine, sul caso francese. Macron ha vinto lo scorso anno le presidenziali con un programma opposto a quello dei partiti che hanno prevalso nelle elezioni politiche italiane. Non a caso è divenuto il bersaglio preferito dei nuovi dioscuri di casa nostra. Nonostante la tenacia con cui ha tentato di cambiare lo status quo e di far compiere una svolta all’Eurozona, dotandola di un bilancio adeguato alle sue possibilità ed alle sue ambizioni, i risultati ottenuti nel recente Consiglio europeo sono stati di ben misera portata. La rivolta dei gilets jaunes lo costringe ora a ripiegare su misure nazionali, nella speranza di rompere l’ampio fronte degli scontenti e di salvare, insieme con la sua presidenza, la democrazia francese dalla pericolosa saldatura dei nazionalismi e dei ribellismi di destra e di sinistra. È una lezione che i federalisti hanno appreso dal Manifesto di Ventotene. Senza unificazione europea si ritorna alle soluzioni nazionali ed il fatto che siano false ed illusorie non le rende purtroppo meno allettanti e meno minacciose. Negli ultimi decenni in Italia si è blaterato tanto di Prima e di Seconda Repubblica. Dopo le elezioni del 4 marzo saremmo entrati addirittura nella Terza Repubblica. L’alternativa è molto più secca: la Repubblica europea o la fine della democrazia e dello stato di diritto. Tertium non datur.
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