È almeno dagli anni Sessanta che esiste una “questione turca”, relativa ai rapporti della Turchia con le istituzioni europee, ma è dai primi anni Duemila che la questione si è trasformata in un dilemma vero e proprio, quando l’Unione europea, pressata dagli Stati Uniti, si è lasciata andare a una promessa di adesione che non poteva mantenere. Se esiste il libro degli errori storici, questo vi sarà debitamente annotato.
Che la Turchia non possa diventare un membro dell’Unione è cosa che riesce chiara ai più. Né culturalmente, né storicamente è mai stata europea, e, come sappiamo fin troppo bene, il cammino che deve fare per avvicinarsi al modello democratico-liberale è ancora lungo. Sarebbe ingenuo pensare che l’UE resterebbe se stessa incorporando uno Stato così “altro” che in più diverrebbe, sul piano demografico, il più importante dei suoi membri dopo la Germania, e questo è un problema che gli europei devono porsi: se l’Europa vuol essere “qualcosa”, non potrà essere “qualsiasi cosa”. L’identità ha un prezzo, o più semplicemente una sua logica.
Inoltre, un’adesione della Turchia all’Unione europea non è realmente necessaria. Quello che davvero è necessario è che l’Europa riesca a esercitare su di essa un’influenza moderatrice e riformatrice (in senso appunto democratico-liberale) ma per questo si può ricorrere ad altre forme di associazione che non siano l’ingresso a pieno titolo. Il caso è analogo a quello dell’Ucraina, altro Stato-cerniera che l’Europa ha buone ragioni per non inglobare e ragioni altrettanto buone per non abbandonare a se stesso.
In effetti il destino della Turchia deve ancora giocarsi, in bilico com’è tra Occidente e mondo musulmano e sempre a rischio di derive autoritarie o fondamentaliste, o di tutt’e due. Per questa ragione l’Europa non può lavarsene le mani, ma dovrebbe fare il possibile per instaurare con essa una relazione pacifica e costruttiva. Dal momento che i vicini non si scelgono, e in ogni caso dovrà essere un corpo a corpo, che sia un abbraccio piuttosto che una zuffa.
Ma la soluzione vera del dilemma sarebbe ancora un’altra. Se l’Europa ha lasciato irrisolti i propri rapporti con il vicino turco ed è stata così goffa nel gestirli è perché essa stessa è qualcosa di irrisolto, non avendo mai deciso se restare un’associazione fra Stati sovrani (che peraltro non è più a tutti gli effetti) o completare la propria evoluzione in una federazione di Stati (che ancora non è). Dieci anni fa ha optato per l’allargamento, portando il numero dei suoi membri a 25 e poi a 28, ma lo ha fatto con una specie di cattiva coscienza, consapevole che in realtà la mossa giusta da fare era - prima o piuttosto - l’approfondimento istituzionale al suo interno.
Se all’epoca i governi europei avessero avuto a cuore gli interessi dei loro cittadini piuttosto che dei cittadini (poniamo) americani, probabilmente questa è la politica a cui avremmo assistito. Gli Stati membri disposti a farlo si sarebbero maggiormente integrati, dando vita a un’unione federale dentro l’Unione confederale, composta dagli Stati che avrebbero preferito rinviare l’adesione, e l’Unione a due velocità che ne sarebbe risultata avrebbe sciolto il rebus degli Stati che l’Europa non può inglobare ma che non può neppure respingere. Si pensi ad esempio alla Gran Bretagna, che a quel punto non avrebbe avuto nessun bisogno di uscire dall’UE per andarsene chissà dove, a fare chissà che.
Perfino l’opzione di un’adesione turca sarebbe forse tornata nell’ambito del concepibile, e in ogni caso non c’è dubbio che un’Europa federata, promossa al rango di soggetto politico e di vera potenza regionale, avrebbe avuto miglior gioco nell’esercitare sul governo turco l’influenza necessaria a garantirne un’evoluzione in senso democratico.
Invece i governi europei, che sono e restano i padroni dell’Europa, hanno scelto di non scegliere scegliendo così, come capita, il peggio: hanno illuso la Turchia sulla possibilità di un’adesione effettiva all’Unione, per poi tirarsi indietro e dare inizio a un balletto politico-diplomatico che doveva portare il governo turco e i suoi cittadini all’esasperazione. Forse Bush senior avrebbe saputo concepire una politica più rozza: ma ne dubito.
Le conseguenze le vediamo ormai quotidianamente: una Turchia fuori controllo, sempre più distante dal modello democratico e sempre più vicina a quello di una dittatura islamica, che si sottrae con spavalderia crescente alle sollecitazioni dell’Unione europea in tema di diritti e democrazia, e dall’altra parte un’Unione indebolita dalle proprie divisioni interne e dalla propria cattiva coscienza che presta il fianco a recriminazioni e ricatti. E questo è l’ultimo frutto avvelenato, in ordine di tempo, che l’Europa intergovernativa ha regalato ai propri cittadini.
Come forse si sarà notato, mi sono imposto di usare il condizionale presente ogni volta che - alla luce degli ultimi sviluppi - sembrava più naturale usare il passato: “sarebbe stato meglio” invece di “sarebbe meglio”… È perché non mi rassegno all’idea che i giochi siano fatti, e che l’Europa abbia perduto la sua ennesima partita politica. La verità è che c’è ancora tempo: tempo perché l’Unione si dia un’identità precisa e faccia chiarezza, così, nei suoi rapporti con i propri vicini e con il resto del mondo; tempo perché la Turchia rientri – o sia ricondotta – sul sentiero della democrazia.
Ma quel tempo dovrà essere riempito dalla migliore politica che l’Europa è in grado di esprimere: a cominciare dalla decisione di darsi un governo federale, con un’unica politica estera e un esercito comune. Altrimenti a questo frutto velenoso ne seguiranno molti altri, l’instabilità politica ed economica dentro e fuori i confini dell’Europa non farà che accrescersi e il prezzo che gli europei dovranno pagare sarà più alto di quanto, probabilmente, oggi riescano a immaginare.
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