Critica all’internazionale nazionalista

, di Federico Castiglioni, Luca Alfieri

Critica all'internazionale nazionalista

Situazione

Negli ultimi anni abbiamo assistito alla nascita di quella che è stata definita da alcuni l’internazionale nazionalista (IN). Internet e i social media hanno portato ad un maggiore scambio di informazioni e discussioni tra i circoli nazionalisti. I componenti di questa internazionale nazionalista non si rifanno ancora ad una struttura, come, per esempio, la terza internazionale comunista, quanto piuttosto ad una comunanza di intenti ed a una piattaforma ideologica comune.

In questa analisi utilizzeremo una definizione ristretta di nazionalismo. Si intenderanno come nazionalisti tutti i movimenti e partiti politici che pongono l’interesse dello stato-nazione come preponderante rispetto a quello degli individui e della comunità sociale di riferimento. Parliamo quindi dei partiti e movimenti che vedono la difesa dello stato nazione come valore in sé, slegato da ogni proposito di miglioramento della vita umana o dal conseguimento di determinati obiettivi politici e/o ideali.

È chiaro quindi che nella definizione non stiamo prendendo in considerazione il semplice nazionalismo metodologico, ma un vero e proprio “rapporto sacro” tra quei partiti e i loro stati-nazionali. L’argomento meriterebbe analisi molto più approfondite, pertanto qui possiamo limitarci ad un’analisi iniziale di alcuni dei punti più rilevanti.

All’origine del fenomeno: la distinzione tra democrazia e liberalismo

Va notato che questi partiti, per la maggior parte e almeno formalmente, si riconoscono all’interno della cornice democratica, perché concorrono alle elezioni. Ciò nonostante, una volta al governo, sembrano non accettare alcuni principi liberali della democrazia (per alcuni costituzionalisti la democrazia sostanziale), [1] ossia della libertà di stampa e di opposizione. Si può citare il caso ungherese, sempre più esempio di democrazia formale e non reale, oppure i rischi che molti intravedono nell’esempio polacco.

Leggendo i dati sulla trasparenza del governo o la libertà di stampa di quei Paesi viene da sorridere pensando a quanto siano in contraddizione con la critica dell’IN al “regime democratico” del cosiddetto “pensiero unico” mainstream. Quella che nei fatti viene propugnata dall’IN è una tirannide della maggioranza, lo specchio speculare delle tirannide della minoranza (elite) che secondo i nazionalisti europei tiene occultamente in mano il mondo.

Nella differenza di pesi e misure che contraddistingue la dialettica tra i nuovi nazionalisti e il resto delle forze dello spettro democratico ritroviamo la differenza tra due concetti cardine del pensiero politico contemporaneo, legati così a lungo da non poter essere più distinti nell’immaginario collettivo. È la differenza, già notata da Bobbio e Albertini tra gli altri, tra democrazia e liberalismo. La variante liberale della democrazia si è imposta a seguito dell’ esempio americano ed inglese e a scapito di altri modelli, ad esempio il centralismo democratico. Eppure un sistema liberale non necessariamente è democratico.

In passato il Regno Unito, gli USA o l’Italia stessa non avevano sistemi democratici come oggi li intendiamo. Il suffragio universale, anche considerando solo quello maschile, era molto limitato e non erano garantite alcune libertà oggi ritenute fondamentali e imprescindibili per una democrazia. Fu forse per primo John Stuart Mill nella seconda metà del XIX secolo a pensare un sistema che permettesse all’individuo di esprimere quella che, secondo lui, era la massima libertà sociale possibile, una democrazia che tutelasse le minoranze. Da allora si sono modellati gli attuali sistemi politici, che oggi ormai diamo per scontati.

La confusione imperante tra liberalismo e democrazia porta alla perdita di questa differenziazione nella percezione dell’opinione pubblica ed è stata una delle fortune per i movimenti facenti parte dell’IN. Il mancato rispetto delle minoranze in un sistema presumibilmente democratico è sempre stato un pericolo per la democrazia stessa [2]. Si potrebbero fare molti esempi afferenti al secolo scorso ma, per non essere capziosi o fuorvianti, è meglio passare avanti ed entrare nel merito delle risposte, molto concrete, che oggi questi movimenti e partiti possono dare al mondo nel quale viviamo.

Che cos’è la globalizzazione?

Una caratteristica delle idee (o dell’ideologia?) della IN è l’interpretazione politica della globalizzazione prima che dei suoi effetti. La maggioranza di questi movimenti è convinta che la globalizzazione sia un processo messo in moto da alcune élite economiche, politiche e intellettuali durante gli ultimi decenni del 20° secolo. Della globalizzazione si coglie l’aspetto ideale e di costruzione politica, incarnato in alcuni pensatori liberali d’inizio secolo. Nel far questo i partiti nazionalisti invertono tuttavia causa ed effetto, non arrivando a cogliere come la chiave della globalizzazione, ancora oggi, sia più tecnologica che umana e quindi sfugga, in larga parte, alla pianificazione pubblica, non avendo necessità di una diretta intermediazione dello Stato.

La globalizzazione non è quindi un fenomeno politico che diviene sociale, ma il contrario. Inoltre secondo la maggioranza degli studiosi se ne può rintracciare l’inizio con la prima rivoluzione industriale e il colonialismo del 19° secolo (ben prima degli anni ’80 quindi...) quando lo scambio di merci, gli spostamenti umani e le comunicazioni diventarono meno costose per un numero sempre maggiore di persone a livello globale. Questo processo è passato per varie fasi, tra cui alcune di arresto, per esempio le due guerre mondiali e la crisi del ’29, ma è sempre ricominciato sotto diverse forme. Ciò induce a pensare che la globalizzazione non sia un processo che può essere invertito facilmente e che abbia una resilienza notevole.

Va osservato che alcuni movimenti inseribili all’interno dell’IN come l’UKIP [3], non sono contrari per esempio allo scambio di merci, ma lo sono alla libera circolazione di persone, sottovalutando la stretta correlazione tra le due cose e il rapporto di reciproca dipendenza tra capitale e lavoro.

La globalizzazione in realtà è un processo multilivello che agisce su varie sfere della vita delle società. L’IN è certamente figlia, da una lato, della globalizzazione e dall’altro della stessa costruzione europea contro la quale essa si scaglia. Se non ci fosse già in nuce una dialettica intra europea su alcune macro questioni, come la sicurezza, l’immigrazione, la crisi economica e finanziaria, gli sviluppi geopolitici ai nostri confini, l’IN semplicemente non esisterebbe per mancanza di elementi aggregativi. Il “neonazionalismo organizzato” nel 21° secolo senza i social media, senza la diffusione dell’insegnamento delle lingue a un più largo circuito di individui e senza internet, non avrebbe mai ottenuto i risultati che vediamo oggi.

Certamente il fatto di avere ben chiaro il proprio posizionamento ideologico è quello che sta dando all’IN un vantaggio attuale sull’arena politica più che le nuove tecnologie. Infatti il motivo per cui le altre forze tradizionali stanno arretrando nei confronti dei neonazionalisti non è imputabile ad un uso inferiore o poco efficace dei nuovi mezzi di comunicazione, ma ad una mancanza di contenuti, da parte delle politica tradizionale, rispetto alle sfide del secolo e del millennio nel quale stiamo vivendo, tra cui la crisi dello Stato nazione. È innegabile, come affermato dall’ IN, che lo Stato sia in crisi. Quello che la politica tradizionale potrebbe fare è invece sottolineare, con onestà, come tutti gli Stati nazionali siano in crisi e come questo non possa dipendere da un complotto ma da una congiuntura storica particolare che stiamo attraversando.

L’identità culturale

Un altro punto importante per l’IN è la difesa dell’identità culturale. Potremmo fare riferimento, al famoso libro di Sen “identità e violenza”, il quale illustra come ogni identità non integrante porti un conflitto, oppure semplicemente far notare come in quasi nessun Paese nel mondo si abbia un’ omogeneità culturale assoluta. Invece vogliamo qui provare, provocatoriamente, ad aprire una riflessione su come la difesa dell’identità culturale intesa come dai nazionalisti sia in realtà meglio difendibile nel quadro federalista che nel quadro dell’IN.

Secondo l’IN quasi ogni intromissione all’interno degli affari interni degli stati porta ad un’interferenza all’interno della cultura locale e lede la possibilità di autogovernarsi (questo è un principio riassumibile con la frase “a casa mia comando io”). L’IN quindi richiede agli stati una sorta di isolazionismo molto pronunciato per garantire che ognuno non interferisca con gli affari altrui. Purtroppo o per fortuna il realizzarsi di questa situazione rappresenterebbe una vera eccezione e rivoluzione storica, poiché il mondo degli stati-nazione è sempre stato fatto di continue implicite o esplicite interferenze. Non a caso uno dei padri del concerto delle potenze dell’800, il principe De Tayllerand, disse nel 1830 che non-intervento “è una parola metafisica e politica che significa più o meno la stessa cosa che intervento”. Inoltre in un mondo in cui la politica di potenza domina, lo stato egemone (o gli stati egemoni) influenzano gli altri stati con quello che è stato definito “soft power”, cioè l’influenza culturale che la potenza egemone (dall’Impero Romano agli USA) ha sugli altri stati. Questa può avvenire e farsi sentire in vari modi e lasciare traccia in modo sottile, ma significativo. È il caso del cinema o della musica americana in Europa e del profondo impatto sull’idea degli Stati Uniti che noi abbiamo, spesso ben più idealizzata che reale.

Nel mondo federalista le culture europee all’interno di uno stesso quadro istituzionale potrebbero convivere e dialogare senza essere strumentalizzate, come sempre nella storia, a servizio di una politica di potenza. Al contempo una Federazione eviterebbe interferenze indebite (ormai all’ordine del giorno) nella vita degli stati (intercettazioni, finanziamenti a partiti politici dall’estero, attacchi hacker e strumentalizzazione mediatica, ecc.). La retorica di chi pretende di conservare il sistema westfaliano, dove appunto vigeva formalmente la sovranità assoluta degli stati e la non-interferenza, è appunto retorica. In realtà semplicemente vogliono riprendere una politica egemonica di stampo nazionale, non comprendendo che questa non è più esercitabile nel mondo contemporaneo.

L’immigrazione

Un’altra questione che caratterizza l’IN è l’immigrazione. Per l’IN ogni persona o quasi dovrebbe nascere, vivere e morire nello stato in cui è nato (ci sono varie posizioni in merito all’interno dell’IN, ma nella sostanza il comportamento che l’individuo di ogni stato dovrebbe assumere è tendenzialmente quello). Di solito si fa notare come le persone che emigrano lo facciano per necessità sia economiche sia politiche. La risposta dell’IN è che le potenze, interferendo con i conflitti interni (politici e non) degli stati in via di sviluppo, sono i veri responsabili di questa situazione.

Molti esponenti politici di questi partiti invitano ad aiutare i migranti “a casa loro”. Alla prima questione si può rispondere con quanto detto prima, e cioè che è proprio degli stati, specialmente se da questo dipende il loro competere con le altre entità statuali, interferire con gli altri. Inoltre l’IN, su questo e su altri aspetti, richiede una riaffermazione del ruolo centrale dello stato-nazione che cozza con la spinta isolazionista di cui si fa propugnatrice. Alla proposta di “aiutarli a casa loro”, si potrebbe rispondere con un semplice “come”.

Se si considera di mandare aiuti in termini di denaro e investimenti, si deve tenere in considerazione che l’ammontare di denaro per ottenere una riduzione dei livelli di immigrazione attuali deve essere molto consistente. Cifre che nessuno stato singolo può o vuole assumersi. Mandare “elemosine”, o poco più, porterà solo ad un aumento degli immigrati invece che una loro riduzione. Supponiamo che lo stipendio attuale di uno yemenita sia pari a un decimo di quello italiano. Un invio di denaro, o un miglioramento delle condizioni di vita tramite investimenti, che riduca il divario a un nono, non farà altro che dare un aiuto economico utile per arrivare in Italia. Come dicevamo, i flussi di investimenti e denaro devono essere consistenti e molto ben organizzati. [4]

Tanti nemici tanto onore?

Negli ultimi anni le forze dell’IN sono andate allo scontro verso quasi qualsiasi istituzione e organizzazione transnazionale, cosa che ha causato addirittura frizioni e fratture con la Chiesa Cattolica Italiana, un fatto più unico che raro per un partito conservatore del nostro Paese.

Lo scontro tra le istituzioni ecclesiastiche e partiti come la Lega Nord sono sembrati a molti come fatti straordinari, tenuto conto che la Lega si è sempre definita come difensore delle tradizioni cristiane. In realtà non è così sorprendente, considerando la storia del partito ma anche la posizione dell’ IN in tema religioso. Tutti i partiti nazionalisti europei si richiamano al cristianesimo più come fattore identitario che come applicazione di una precisa etica o morale. Inoltre questo scontro, pensiamo al caso dell’Italia che, benché sottotraccia, può essere interpretato come un’ulteriore posizione anti-establishment (l’essere “contro i poteri forti”). C’è però una debolezza in questa strategia: sul lungo temine mettersi contro un fronte così ampio potrebbe per questi partiti essere controproducente. Il motto “molti nemici, molto onore” difficilmente funziona in politica. Mettendo sullo stesso piano l’universalismo cattolico, i liberali democratici, la sinistra progressista si rischia una superficialità di analisi che difficilmente può sfuggire e sul lungo periodo può divenire per questa piattaforma una spada di Damocle. D’altro canto l’IN, per essere fedele a se stessa, non può fare altrimenti.

La “nuova Europa” dell’IN

Di solito i partiti dell’IN dichiarano che, dopo aver distrutto l’UE, continueranno a cooperare, ma con accordi che rispettino la sovranità degli Stati. Peccato che, come sa chi ha studiato un minimo di politica internazionale, parole come “cooperazione”, “coordinamento”, “condivisione delle best practices” sono altri modi per dire: ognuno farà come gli pare.

Bisogna osservare infatti che i passaggi di sovranità verso livelli sovranazionali sono avvenuti sempre perché i tentativi di mero coordinamento sono falliti. Un esempio è la costruzione dell’unità monetaria europea. Progetti su una moneta unica esistevano da decenni, ma è solo con la caduta di Bretton Woods, il fallimento del serpente monetario prima e dello SME (sistema monetario europeo) poi che si è arrivati all’euro. Gli Stati non cedono sovranità se un mero coordinamento è sufficiente (si legga in merito il libro di Montani e Fiorentini). Mai. Il passaggio avviene solo quando la centralizzazione del potere è l’unica via possibile per risolvere un determinato problema.

Una seconda questione che sembra interessare poco o per nulla all’IN è la gestione dei beni pubblici internazionali come l’ambiente, la pace, la stabilità finanziaria, ecc... che sono per loro natura transnazionali e non gestibili da un solo paese. L’unica alternativa ad un’autorità sovranazionale (globale o regionale) è che un egemone sufficientemente potente (o un gruppo di paesi potenti) si sobbarchino i costi di gestione di questi beni pubblici (esternalità). L’egemone tenderà sempre ad approfittare di questa sua posizione per i suoi obiettivi di politica internazionale (alcuni esempi storici: Regno Unito, USA, Santa Alleanza). Dato che l’IN rigetta le autorità sovranazionali, potrebbe essere costretta ad ammettere che ci sono “stati più uguali degli altri”, ma questo andrebbe contro la filosofia della sovranità assoluta degli stati che essi stessi professano e del principio di non interferenza.

Di fatto l’IN si trova di fronte ad un’altra contraddizione rilevante, un trilemma per l’esattezza. Se tiene il suo punto ideologico fino all’estremo, questo porterà ad una mala gestione dei beni pubblici internazionali; se accetta l’autorità sovranazionale diventa federalista e se invece accetta che uno o più stati gestiscano i beni pubblici internazionali de facto sconfessa la base della sua propaganda sovranista dalle fondamenta.

In conclusione è facile capire perché l’impostazione dell’IN stia avendo successo attualmente, ma è alquanto dubbio che possa rappresentare una valida alternativa ai problemi del mondo. Allo stesso tempo chi vuole opporsi all’avanzata dei neonazionalisti deve dare delle risposte sociali sul mondo globale, indicando nuovi metodi di convivenza, che considerino non solo le uguaglianze ma anche le differenze tra i popoli e abbandonando il rassicurante adagio che “tutto tornerà come prima”. La società che ci aspetta in futuro non sarà quella del benessere dei nostri genitori, ma non deve necessariamente essere quella della “decrescita felice” da taluni sponsorizzata.

Oggi più che mai alla politica si chiedono non solo soluzioni ma soprattutto risposte: questo quadro apre ad ogni cambiamento, anche ad un’auspicabile cambiamento dell’ attuale assetto europeo in senso federale.

Fonte immagine The Day

Note

[1Per principi liberali non intendiamo questioni riguardanti il libero mercato, che in italiano vanno sotto l’appellativo di “liberismo economico”, ma il principio di separazione dei poteri, dei sistemi di pesi e contrappesi tra istituzioni e il rispetto delle minoranze.

[2Anche Guido Montani ne ha scritto in un suo recente saggio.

[3Come si nota alla voce “trade” del suo manifesto.

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