L’interesse di queste elezioni sta nel fatto che ci permettono di gettare uno sguardo nel cuore del processo che sta sconvolgendo il quadro politico europeo, e che è la sua ricomposizione intorno al tema dell’integrazione, ormai così centrale da operare come un discrimine. Spinelli e Rossi lo avevano anticipato nel 1941, scrivendo il Manifesto di Ventotene; per decenni abbiamo atteso che si verificasse. Oggi lo vediamo accadere.
Ogni paese è un caso a sé, eppure ognuno vive lo stesso travaglio, lo stesso tormentato sforzo di arrivare a una chiarificazione sui termini e le ragioni della propria adesione al progetto europeo, e fra tutti nessuno è esemplare come il Regno Unito, autentico laboratorio politico dal quale ci si aspetta il verdetto definitivo: se abbia senso oppure no, nel XXI secolo, l’idea della sovranità nazionale esclusiva.
Non ha senso, naturalmente. Ed è quello che i britannici stanno scoprendo. Per la verità, i cittadini lo hanno capito da un pezzo; chi arriva in ritardo a questo appuntamento con i fatti è la classe dirigente britannica. È chiaro ormai che il perno dell’affare Brexit è l’incapacità del Labour di accettare il mondo così com’è. La condotta di Corbyn si distingue da quella di ogni altro leader politico britannico per un’ottusità che gli altri hanno provato in tutti i modi a eguagliare senza riuscirvi, in questa gara ad assumere la posizione più assurda che è stata la politica brit negli ultimi mesi.
Il primo ministro uscente, Theresa May, ha tentato di rimpiazzare il vuoto di progetti in cui annaspa il partito conservatore con un saggio di testardaggine pura, fino a esaurirsi (fedele, si direbbe, al motto di un campione di scacchi del passato, secondo cui “un cattivo piano è meglio che nessun piano”). I più generosi diranno che ha dato prova di carattere.
Su Farage sembra inutile soffermarsi: è un demagogo e fa bene il suo mestiere, che è di raccattare voti facendo appello alle teste confuse. Il successo del suo nuovo partito non deve stupirci: in un paese spaccato in due sulla scelta europea Farage ha dato rappresentanza al popolo del no. (D’altra parte, la sua insistenza sull’opzione di una Brexit senza accordo sposterà solo altro consenso sull’opzione del Remain, dato che i britannici sono meno stupidi di quanto pensa, anzi non lo sono affatto).
Ma Corbyn... Che dire di Corbyn, leader del partito progressista? Timoroso di professarsi apertamente pro-Brexit, eppure intimamente euroscettico, ha lasciato a bocca asciutta i tanti che si aspettavano una scelta di campo europea, privando i remainers di un faro nella tempesta e mancando quella che era probabilmente (e peraltro rimane) la più grande opportunità per il Labour dai tempi di Blair.
La sua ostinazione a non capire e non vedere si può solo imputare al fatto che sulle due sponde opposte del nuovo discrimine (sovranità nazionale/sovranità europea) si trovano due logiche inconciliabili, quella “tolemaica” del vecchio stato-nazione e quella “copernicana” del sovranazionale, e chi è rimasto prigioniero della prima può anche ritenersi un progressista e un internazionalista, ma di fatto è irredimibile: nulla potrà convincerlo a spogliarsi della sua visione, perché sarebbe come chiedergli di cambiare testa. Nessun argomento, nessuna evidenza serviranno a persuaderlo. I suoi occhi vedono ciò che non è più, mentre non vedono ciò che è, e il suo cervello – come quello di chiunque – obbedisce. Il nazionalismo è come la vecchiaia: è incurabile.
Io credo che lo scossone Brexit si rivelerà salutare sotto molti aspetti. Ad esempio, obbligando i veri progressisti britannici a farsi avanti, e spingendo sullo sfondo quelli finti. Il Labour cambierà profondamente – oppure sparirà: non importa. La persona che prima o poi subentrerà nella leadership laburista, o il partito che sostituirà il Labour, avrà le idee chiare: saprà che al di fuori dell’Europa il Regno Unito è nulla, e agirà di conseguenza. Nell’immediato, o Corbyn si farà da parte, oppure si piegherà all’opzione che fin dal 2016 appare l’unica ragionevole: un secondo referendum, che decreterà in via definitiva la permanenza del Regno Unito nell’Unione europea.
La mia impressione generale è che il dramma europeo – dramma di una strada che ancora si esita a percorrere, benché sia l’unica percorribile: quella dell’unità politica – in questa prova elettorale abbia fatto un passo avanti. Se ne può dedurre che gli europei non hanno nessuna intenzione di gettare al vento le conquiste dell’integrazione, e che i giovani, in particolare, stanno proseguendo la loro avanzata sulla scena sociale e politica, incontrandosi sul terreno dei due temi transnazionali per eccellenza: l’Europa e l’ambiente. Ed è sacrosanto che sia così.
Quanto al bluff nazionalista dei vari Orbán, Salvini, Farage, è destinato a sciogliersi come un gelato al sole: la maggioranza degli europei sa benissimo che rinunciare all’unione monetaria e al mercato comune sarebbe una follia, e lo sanno anche loro, i demagoghi che fingono di ignorarlo. Dunque, quel pulsante non verrà mai premuto. Ma il problema c’è, e rimane: un’Europa in balìa di 28 governi nazionali non ha futuro. Si tratta di vedere se gli europei che hanno compreso la necessità dell’integrazione sapranno anche trovare la via per completarla. E qui la partita è ancora tutta da giocare.
Segui i commenti: |