Elezioni europee alle porte: scopriamo Parlamento, Commissione e Spitzenkandidaten

, di Michelangelo Roncella

Elezioni europee alle porte: scopriamo Parlamento, Commissione e Spitzenkandidaten
Foto di European Union 2024 - Source: EP Multimedia Centre

A pochi giorni dalle elezioni, è bene avere chiaro in mente per chi votare, ma ancor prima, per cosa si sta per votare. L’Unione europea ha al suo interno numerose Istituzioni e agenzie, due in particolare vengono toccate dall’espressione dei cittadini: il Parlamento europeo e la Commissione europea. Con loro, giocano un ruolo teoricamente fondamentale (ma praticamente dubbio) gli Spitzenkandidaten.

Il Parlamento europeo: che cos’è e perché lo votiamo

Il dibattito sulle elezioni europee, in Italia, è parso concentrarsi molto sulle candidature. Tra conferme, smentite, passi indietro e fraintendimenti, si è parlato non solo di politici, ma anche di personaggi “del momento” provenienti da altri ambiti (forze armate, giornalismo, spettacolo). Questa attenzione ha occupato più spazio del dovuto, a scapito dei temi e del dibattito in generale, nonché dell’Istituzione che gli elettori “comunitari” sono chiamati a votare.

Le candidature, di per sé, dovrebbero (dovrebbero!) avere la loro giusta importanza, in particolare per il possibile contatto con gli elettori, esigenza già sentita ai tempi dell’Assemblea Comune [1]. Inoltre, verrebbe da chiedersi, se saranno eletti, quanto siano preparati questi candidati per i ruoli che ricopriranno a Bruxelles e a Strasburgo. A questo si aggiunge il modo di vedere l’Unione europea, senza contare il linguaggio. Si dice “mandiamo i nostri rappresentanti in Europa” ma non si dice “mandiamo i nostri deputati e senatori in Italia”, si parla di “Roma”, anche se ultimamente ci si riferisce all’Unione europea chiamandola “Bruxelles (o “Strasburgo” nel caso del Parlamento Europeo). Un possibile esempio di “nazionalismo metodologico” e del fatto che le mentalità, compresa quella nazionale, sono dure a morire (o meglio a cambiare).

Tornando alle elezioni europee, questa è la decima della storia. Per la prima volta senza il Regno Unito (dove si sono tenute nel 2019, tre anni dopo il referendum per la Brexit), dopo la pandemia per Covid-19 e con una guerra alle porte dell’Unione europea. Inoltre, per la terza volta, gli Eurogruppi hanno presentato i propri candidati alla Presidenza della Commissione Europea - gli Spitzenkandidaten - con il particolare precedente di Ursula von Der Leyen, Presidente della Commissione uscente che si candida per la conferma, presentandosi alle elezioni europee.

Il Parlamento Europeo ha origini lontane: anche se le prime elezioni dirette e a suffragio universale avvennero nel 1979, questa Istituzione nacque nel 1952 con la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio con il nome di “Assemblea Comune”. Questa era già suddivisa per gruppi politici (Socialisti, Liberali e Popolari) e aveva il potere di sfiduciare l’Alta Autorità, antenata della Commissione europea. I suoi poteri erano meramente consultivi e i deputati venivano scelti dai Parlamenti degli, allora sei, Stati membri.

Il successivo Trattato di Roma che istituì la Comunità Economica Europea (CEE) includeva tra le disposizioni anche l’Articolo 138 che diceva:

“L’Assemblea elaborerà progetti intesi a permettere l’elezione a suffragio universale diretto, secondo una procedura uniforme in tutti gli Stati membri. Il Consiglio, con deliberazione unanime, stabilirà le disposizioni di cui raccomanderà l’adozione da parte degli Stati membri, conformemente alle loro rispettive norme costituzionali.”

L’allora Assemblea non perse tempo: nel marzo 1958, fu istituito un Gruppo di lavoro [2] che dopo un profondo esame sulla messa in pratica della riforma, presentò un “Progetto di Convenzione” sull’elezione dell’Assemblea parlamentare europea a suffragio universale diretto”. Questo progetto, approvato dalla stessa Assemblea Comune, fu trasmesso al Consiglio (oggi Consiglio dell’Unione europea, che riunisce i Ministri nazionali per materia, da non confondere con il Consiglio europeo, che riunisce i Capi di Stato e di Governo), il quale però non lo prese in considerazione.

L’Assemblea (dal 1962 rinominata Parlamento) continuò la battaglia per l’elezione diretta attraverso due risoluzioni [3], anch’esse trascurate, e un’interrogazione scritta, alla quale il Consiglio rispose che servisse (come indicato sopra) l’approvazione unanime, resa impossibile dall’opposizione del Governo francese, il quale in quel periodo provocò la “Crisi della sedia vuota” imponendo come regola il voto all’unanimità e congelando per molto tempo l’integrazione europea.

Dopo una battaglia lunga circa 15 anni, si arrivò all’Atto del 1976 che sancisce l’elezione diretta del Parlamento europeo, senza però una procedura elettorale uniforme, facendo alcune indicazioni come l’adozione del modello proporzionale e l’espressione delle preferenze.

Nel 1979 avvennero le prime elezioni dirette del Parlamento europeo, presieduto poi da Simone Veil, prima donna a presiedere la nuova Assemblea elettiva. Alle stesse elezioni si candidò e fu eletto Altiero Spinelli che si adoperò per attuare il “metodo costituente” per dare alla Comunità europea un assetto federale. Attraverso il Club del Coccodrillo ed una commissione parlamentare ad hoc, il risultato fu il Progetto di Trattato che istituisce l’Unione europea (o “Progetto Spinelli”), approvato il 14 febbraio 1984 a larga maggioranza dal Parlamento europeo, ma respinto poi dai parlamenti nazionali. Il Progetto fu sostituito dall’Atto Unico Europeo del 1986.

Dal Trattato di Maastricht in poi, il Parlamento europeo ottenne sempre più prerogative, in particolare nei confronti del Consiglio. E proprio per questo che sarebbe più corretto dire, invece di debolezza, una sua “non-forza”.

In generale, i compiti di un Parlamento sono l’approvazione delle leggi, la rappresentanza, la politica di bilancio e le funzioni di controllo democratico.

Come poteri di controllo, il Parlamento europeo può rivolgere delle interrogazioni alla Commissione europea attraverso il “question time”, nonché l’esame dei singoli candidati ai membri dello stesso Collegio. Inoltre, può proporre una mozione di “censura” (simile alla sfiducia dei sistemi parlamentari).

Sulla politica di bilancio, dei primi passi sono stati fatti con Trattato di Lussemburgo del 1970 e quello di Bruxelles del 1975: a quel tempo, il Consiglio aveva il potere di approvare le spese obbligatorie, mentre il Parlamento europeo poteva avere l’ultima parola sulle spese non obbligatorie. Nel 1988 furono introdotti gli accordi pluriennali al fine di perseguire la politica di bilancio con relativa stabilità, mentre con il Trattato di Lisbona il Parlamento europeo condivide il potere di approvare l’intero bilancio dell’Unione con un’apposita procedura.

Riguardo invece il potere legislativo (che nel caso dell’Unione europea sono l’emanazione di direttive, regolamenti e decisioni), il Parlamento europeo aveva solo un potere consultivo, cioè poteva dare un parere obbligatorio, ma non vincolante. In altre parole il Consiglio teneva il monopolio del potere legislativo della Comunità europea, ma era tenuto a ricevere il parere del Parlamento, ma non a seguirlo. Una svolta avvenne con il Trattato di Maastricht (1993) che introdusse la “procedura di co-decisione” con cui il Parlamento europeo e il Consiglio, appunto “co-decidono”, in una (apparentemente) condizione di parità tra i due “rami legislativi” dell’Unione Europea, allora appena istituita.

I Trattati successivi estesero ad altri settori questa procedura che, con Lisbona (2007), divenne l’attuale “procedura ordinaria”, valida per tutti i settori con l’eccezione di alcune competenze importanti come la difesa, la politica estera e i settori legati alla politica sociale.

Per completare il quadro, il Parlamento europeo contribuisce a nominare la Commissione europea con una procedura di “doppia fiducia” (un voto per il Presidente, un voto per l’intero Collegio), riceve petizioni e nomina il Mediatore europeo.

Oggi il Parlamento europeo ha circa 72 anni, ed è eletto direttamente dai cittadini da 40. Si tratta della prima Istituzione elettiva e rappresentativa di carattere sovranazionale, con tanto di gruppi politici basati sull’orientamento politico, invece delle delegazioni nazionali. Il Trattato di Lisbona obbliga di tenere conto del risultato delle elezioni europee per la nomina della Commissione europea, quasi a creare un sistema simile alla forma di governo parlamentare, ma con una forte interferenza da parte del Consiglio europeo.

Eppure manca qualcosa. Innanzitutto il Parlamento Europeo non dispone di una vera e propria iniziativa legislativa, cioè la possibilità di iniziare il percorso verso l’approvazione di una legge. Questo potere spetta (quasi) esclusivamente alla Commissione europea. Sempre sulla procedura legislativa «ordinaria», oltre al fatto che mancano all’appello alcuni settori (vedi sopra), questo processo coinvolge anche il Consiglio - il primo co-legisaltore, che rappresenta i governi degli Stati membri: dall’Atto Unico Europeo in poi il voto all’unanimità è stato istituito a favore della maggioranza qualificata. Questo cambiamento implica comunque un voto ponderato, quindi il Consiglio, invece che comportarsi come un ramo parlamentare, nel Consiglio adotta l’approccio “diplomatico” tra i governi (o meglio, i ministri) i quali sono portatori di interessi diversi, spesso confliggenti. E questo meccanismo ostacola possibili riforme importanti tramite direttive e regolamenti, come la riforma del Regolamento di Dublino sulle richieste di Asilo oppure tutte le “leggi europee” che compongono il Green Deal.

A questo poi si aggiunge un problema extra-giuridico, che riguarda di più i cittadini che sono anche elettori: infatti la Cittadinanza europea prevede il diritto di votare e candidarsi per il Parlamento europeo, anche in altri Paesi membri dell’Unione. Nonostante la novità del 1979, questi appuntamenti elettorali, che si tengono ogni 5 anni, sono poco sentiti e sembrano “elezioni di second’ordine” o “elezioni nazionali bis” usate come parametro per testare la forza dei partiti nazionali, con la conseguenza che l’affluenza è sempre stata più bassa - con una lieve eccezione delle elezioni del 2014 e del 2019.

Complice anche la mancanza di una procedura elettorale uniforme per il Parlamento Europeo [4]: ogni Paese adotta un proprio sistema (che deve essere proporzionale), come scegliere tra la suddivisione in circoscrizioni o fare un collegio unico nazionale.

A proposito di collegi, un’importante riforma mancata era “riciclare” i seggi britannici dopo la Brexit, trasformandoli in “transnazionali”: una delle possibili idee di messa in pratica avrebbe richiesto un grande sforzo a livello di costi e di logistica per la campagna elettorale, ma avrebbe contribuito a uscire dalla “gabbia” nazionale queste elezioni e magari dando anche un ruolo maggiore ai “Partiti a livello europeo” che sembrano i grandi assenti a questa competizione elettorale, nonostante possano presentare i candidati alla Presidenza della Commissione europea, i quali tengono a Bruxelles dibattiti televisivi in eurovisione.

Il modo di vedere queste elezioni può essere dovuto a un mix di inconsapevolezza o mancanza di volontà politica.

Quindi, perché si vota per il Parlamento europeo? Una possibile risposta può essere la possibilità di partecipare (e magari incidere) sul processo decisionale europeo (e non solo) nei limiti delle proprie possibilità. Il federalismo si pone di creare una pace effettiva, in cui è (auspicabilmente) impossibile ricorrere alla guerra: i conflitti continueranno a esistere, per divergenze di opinioni e interessi, ma saranno gestiti nel modo meno violento possibile. E le elezioni sono uno dei tanti metodi: se una parte perde potrà vincere la prossima volta e viceversa. Parafrasando Victor Hugo, “i voti sostituiranno i proiettili”. Sembra qualcosa di utopico e di campato in aria, ma di fatto - come molte cose dell’Unione europea - questo c’è e sono le elezioni europee. Ma non è semplice. Non basterà la volontà, più che ostacolata, di adottare una visione che vada oltre l’ottica nazionale (il nazionalismo metodologico), ma sarebbe già un primo passo.

Al superamento dei “confini mentali nazionali” (espressione un po’ inappropriata) si deve legare la “fame di politica”, in particolare quella dei giovani, su temi globali trans-continentali come le questioni ambientali e il conflitto tra la politica estera e i valori, a cominciare dai diritti umani.

Cercando di restare sul tema, servirebbe anche un ripensamento del concetto di rappresentanza, considerando tutti i livelli di assemblea, dai consigli locali al Parlamento Europeo, considerando alcuni aspetti, tra cui la questione dei seggi e le identità in senso ampio.

Chi vuole, nei limiti delle proprie possibilità, può contribuire a creare un dibattito serio e “più europeo” sulle questioni da esaminare: “cosa”, “come gestirle”, su “chi deve occuparsene” - in questo caso, il Parlamento Europeo con i suoi membri e la Commissione europea, federazione o non federazione. Non sarà facile né sicuro ma deve essere fatto e lo sarà, e di questo mosaico da comporre questi sono solo i primi tasselli.

La Commissione Europea: è un Governo? Sì, no, forse

Oltre a eleggere i rappresentanti al Parlamento, con le elezioni europee i cittadini determinano anche, indirettamente, la composizione di un’altra Istituzione: la Commissione Europea, l’organo “esecutivo” dell’Unione europea.

A livello mediatico, la Commissione non è molto conosciuta: infatti (forse con l’eccezione di Romano Prodi) nei decenni scorsi non si è sentito mai parlare di questo particolare organo. Solo negli anni recenti, l’attuale Presidente della Commissione, Ursula Von der Leyen, ha cominciato ad avere un po’ di notorietà, dovuta al Covid, alla guerra in Ucraina e al tentativo di transizione ecologica, ma anche per scandali che potrebbero ostacolare la sua riconferma come “capo dell’esecutivo europeo”.

Questo è possibile con il Trattato di Lisbona secondo cui la nomina della Commissione europea deve tenere conto del risultato delle elezioni per il Parlamento Europeo e con il meccanismo degli “Spitzenkandidaten”.

Ma quindi si può scegliere il Governo “europeo”? In parte sì, ma in molto decisamente indiretto e senza votarlo e poi ci sono fattori che impediscono questa consapevolezza. Inoltre non sempre è stato così: l’Unione europea è considerata un’organizzazione internazionale. Questo è in parte vero se si guarda alla storia dell’Integrazione europea.

La Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio è stata una novità poiché sancì delle istituzioni indipendenti dai Governi dei Paesi membri, tra cui l’Alta Autorità, antenata della Commissione europea, presieduta da Jean Monnet. Dopo il tentativo della Comunità Europea di Difesa - a cui si sarebbe affiancata una Comunità Politica Europea (CPE) - seguì la Comunità Economica Europea (insieme all’Euratom), che manteneva il suo carattere di organizzazione internazionale.

Negli anni ‘60, Walter Hallstein, primo Presidente della Commissione della CEE e convinto federalista, si impegnò per rafforzare i poteri degli organi “sovranazionali”. Hallenstein fu però ostacolato dal Presidente della Repubblica Francese Charles De Gaulle, sostenitore dell’Europe des Patries, a guida francese. Le Général ordinò ai rappresentanti del paese d’oltralpe di boicottare le attività nelle istituzioni europee, provocando la già menzionata “Crisi della sedia vuota”, conclusa con il Compromesso di Lussemburgo del 1966 che sancì la vittoria dell’Europa degli Stati a vantaggio dei Governi nazionali, rappresentati dal Consiglio, nel quale vigeva praticamente sempre la regola dell’unanimità.

Un’importante svolta avvenne dal 1984 con il Presidente più longevo della storia dell’Unione, Jacques Delors, il quale rilanciò l’Integrazione europea, dal completamento del mercato unico al terreno preparato per l’introduzione dell’Euro, nonché la ripresa del dialogo sociale europeo.

Questa ripresa è dovuta a una cornice “intergovernativa” relativamente favorevole: Delors diventò “capo del governo europeo” grazie al Presidente della Repubblica francese François Mitterand e al cancelliere tedesco Helmut Khol.

“[Questa] carica [è] considerata di norma di non particolare spicco [...]. Fino a quel momento i rilanci europei sono avvenuti sempre a livello intergovernativo, più precisamente fra capi di Stato e di governo dei paesi dell’Europa occidentale. D. rompe con questo schema abituale e finisce per impersonare l’Europa stessa.

Una cornice che comunque non nascondeva il conflitto tra l’Europa dei Governi e quella “comunitaria”: infatti, oltre all’ostilità della premier britannica Margaret Thatcher verso un’Europa più forte, gli stessi Mitterand e Khol avevano un progetto franco-tedesco di trattato di unione europea alternativo all’iniziativa di Delors, la quale tra i vari punti mirava a introdurre il voto di maggioranza qualificata presso il Consiglio. Obiettivo raggiunto con l’Atto Unico Europeo del 1986, che rimpiazzò il “Progetto Spinelli” affossato nel 1984.

Negli anni ‘90, con il Trattato di Maastricht venne introdotto il pilastro della Politica Estera e di Sicurezza (PESC), competenza che però rimase in mano agli Stati membri, mentre le guerre balcaniche fece riemergere la questione della difesa comune. Il successivo Trattato di Amsterdam introdusse la figura dell’Alto Rappresentante, inglobata poi nella Commissione europea. In vista del grande allargamento (2004 e 2007) era previsto un meccanismo di rotazione che comprendeva due terzi dei Paesi membri, ma il veto dell’Irlanda fece mantenere la composizione comprendente tutti gli Stati membri.

Nella pratica, dopo Delors, succedette Jacques Santer, sostituito poi da Romano Prodi. Santer è stato - al momento - il primo e unico caso di dimissioni da Presidente della Commissione per cattiva amministrazione da parte di alcuni Commissari, i quali non volevano dimettersi. Nel periodo della crisi economica del 2007-08, José Manuel Barroso non dette grande impulso nonostante i suoi due mandati. Diversamente, i suoi successori Jean-Claude Juncker e Ursula Von der Leyen si sono sforzati per dare alla Commissione Europea un ruolo più rilevante e rappresentano due casi interessati.

Con Juncker si diede il via al sistema degli Spitzenkandidaten, i candidati a guidare la Commissione europea scelti dagli Eurogruppi. Nel 2014, Juncker era candidato per il Partito Popolare Europeo (PPE). Dopo le elezioni, con i Popolari come gruppo più numeroso presso il Parlamento europeo, Juncker divenne Presidente della Commissione anche con l’assenso (negoziato) del Consiglio Europeo. Questo sistema si è ripetuto nel 2019, ma nessuno dei candidati all’esecutivo europeo è diventato Presidente della Commissione: né Manfred Weber, candidato dei Popolari, nuovamente gruppo più numeroso, che non trovò fiducia negli altri gruppi con cui era possibile comporre una maggioranza, né il socialista Frans Timmermans, che subì il veto di dei Governi di Polonia e Ungheria presso il Consiglio Europeo. La scelta ricadde poi su Ursula Von der Leyen.

Prima donna a ricoprire questo incarico, Von der Leyen si adoperò per contrastare il Covid-19 e sostenere l’Ucraina attaccata dalla Russia, spesso in contrasto con il Presidente del Consiglio Europeo Charles Michel - un esempio è il “sofa-gate” in Turchia. Nonostante la sua nomina “non democratica” nel 2019, Von der Leyen riesce a candidarsi per il PPE per le elezioni europee del 2024, creando un precedente particolare.

Tornando alla Commissione Europea, pur essendo indipendente dagli Stati membri, la sua composizione rimane “intergovernativa”: in altre parole ogni Paese membro esprime un proprio Commissario, incluso il Presidente e l’Alto Rappresentante. Spesso questi membri sono espressioni dei Governi nazionali in carica o politicamente “indipendenti”. E questo, per quanto riguarda l’orientamento politico, spiega il carattere “multicolore” del Collegio - in genere Popolari, Socialisti e Liberali.

Il presidente della Commissione è sempre stato nominato dal Consiglio europeo con voto a maggioranza qualificata. Il Trattato di Lisbona prevede che per la nomina si debba tenere conto dei risultati delle elezioni per il Parlamento europeo e il sistema degli Spitzenkandidaten cerca di applicare questa norma. Al momento, Juncker è stato l’unico caso di Presidente nominato con “legittimazione elettorale”. Una volta nominato, il Presidente della Commissione incaricato deve ottenere la fiducia del Parlamento Europeo. In caso di “sì”, si procede all’esame dei possibili Commissari (simili ai Ministri) da parte dello stesso Parlamento. Infine si procede alla fiducia per tutto il Collegio. In poche parole, si può dire che per poter operare, la Commissione ha bisogno di una sorta di “doppia fiducia”. Il confronto-scontro perpetuo tra idee diverse per l’Europa ha portato a un sistema di governo simile alla forma parlamentare ma con una forte influenza da parte dei Governi.

Riguardo le sue prerogative, la Commissione è l’unica (o quasi) ad avere l’Iniziativa legislativa. Come mai? Durante l’integrazione europea era il Consiglio a farla da padrone. Per riequilibrare i poteri tale potere di iniziativa è stato dato alla Commissione. Per cercare di democratizzare di più l’Unione europea, molti europeisti e federalisti chiedono di estendere l’iniziativa legislativa anche al Parlamento europeo. La Commissione inoltre ha competenza esclusiva sul mercato unico, la quale per garantire la libera concorrenza, spesso sanziona i grandi gruppi economici (emblematici il caso di Google in Irlanda) e pone freni - non senza tensioni - ai Governi dei Paesi membri sugli aiuti di Stato. Inoltre è la Commissione a fare accordi commerciali “all’estero”, come nei casi del TTIP, e dei più recenti accordi con il Mercosur.

La Commissione ha anche la funzione di “Guardiano dei Trattati”: vigila se i Paesi membri agiscono secondo i Trattati europei. In caso di persistenza della violazione del diritto europeo, la Commissione può “portare il trasgressore” davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, la quale impone delle sanzioni.

Infine come “Governo”, condivide - anzi, contende - con il Consiglio europeo la funzione di indirizzo politico (cioè, indicare la rotta) e quella di rappresentanza esterna. Sul secondo aspetto, in particolare, la politica estera e di difesa sono ancora in mano agli Stati membri che adottano l’approccio “negoziale”, mentre il Parlamento europeo praticamente non ha voce in capitolo, dato che i due settori non sono sottoposti alla procedura ordinaria.

Dov’è quindi la discrepanza con un effettivo Governo? Il “Governo federale” è un organo con poche ma importanti competenze, chiamato, per legittimazione democratica, a gestire determinate - con risorse adeguate - crisi e problematiche, mentre altre questioni possono essere affidati ad altri livelli di governo “inferiori” (Stati, regioni, enti locali, ecc.). La Commissione Europea può sembrare l’organo esecutivo dell’Unione Europea, ma le mancano le competenze che le permetterebbero una gestione efficace dei problemi e delle crisi, e subisce un problema di legittimazione democratica, contesa tra l’Europa dei Governi e l’Europa “comunitaria”.

Gli Stati membri avanzano come motivo che degli organismi “sovranazionali” non possano prendere delle decisioni proprio perché sono indipendenti dagli Stati nazionali, considerati la massima espressione di politica, di democrazia e di sovranità.

Negli ultimi anni, molti movimenti e partiti si sono definiti “sovranisti”, cioè sono per il recupero della sovranità nazionale, spesso considerata sinonimo di “popolare”. Al contrario, molte associazioni europeiste si sono dichiarate «anti-sovraniste». Insomma un termine usato in modo grossolano, in quanto non passa per la mente possibili idee di sovranità che non si limiti alla dimensione nazionale e che si possa essere distinguibile anche dall’aspetto identitario.

Nel caso dell’Unione europea, la sovranità è stata ceduta in settori principalmente economici, non ultima la moneta unica. Basti ricordare l’operato di Mario Draghi quando era Presidente della BCE. A proposito di Draghi, dopo il suo rapporto sulla competitività, sono corse voci di una sua possibile nomina a Presidente della Commissione europea, in contrasto con il nuovo tentativo degli Spitzenkandidaten.

Un ulteriore spunto di riflessione è chiedersi quale forma di Governo sarebbe adatta ad un’evoluzione più democratica della Commissione Europea.

Gli Spitzenkandidaten: gli sconosciuti candidati “premier” dell’Unione europea

Gli Eurogruppi esistono dagli anni ‘70, nel periodo in cui il Parlamento europeo divenne (con difficoltà) direttamente eleggibile. Inizialmente, c’erano solo il Partito del Socialismo Europeo (PSE), il Partito Popolare Europeo (PPE) e i Liberali (oggi ALDE e PDE, riuniti in Renew Europe). Col tempo si sono aggiunti i Verdi Europei (Greens), gli autonomisti di Alleanza Libera Europea (EFA) e il Partito della Sinistra Europea (The Left). Molto recenti sono il gruppo di destra Identità e Democrazia (ID), i Conservatori e Riformisti Europei (ECR), il Partito Pirata, i cui temi sono legati prevalentemente al mondo digitale, e i più recenti partiti continentali DiEM25 e Volt. Quasi tutte queste organizzazioni sono composte dai partiti nazionali.

Il Trattato di Lisbona mette in evidenza che il Consiglio europeo nomini la Commissione europea sulla base del risultato delle elezioni europee. Al fine di rendere più democratiche queste elezioni, dal 2014 gli Eurogruppi propongono i propri candidati per la Presidenza della Commissione Europea: gli Spitzenkandidaten, una sorta di “candidati premier europei”.

Per le Elezioni Europee del 2024 i candidati sono:

Un caso particolare è il gruppo di Identità e Democrazia che non presenta un suo candidato, bensì un proprio portavoce, Anders Vistisen. Riguardo i Conservatori e Riformisti Europei, non è stata presa una decisione sullo Spitzenkandidat.

Malgrado i dibattiti che questi tengono in Eurovisione, i cui temi risultano fondamentali per il futuro dell’Europa, gli Spitzenkandidaten passano sovente inosservati e inascoltati nelle settimane che precedono il voto. Come è possibile?

Come sappiamo l’Unione europea è un soggetto molto particolare che appare (e lo è in buona parte) come un’organizzazione internazionale, con un proprio mercato e una moneta molto forte, ma che include anche un Parlamento direttamente eletto, come mostrano queste elezioni dal 1979.

La Commissione Europea, per la quale si presentano gli Spitzenkandidaten, presenta delle debolezze legate all’attuale assetto dell’Unione che vanno a vantaggio dei governi degli Stati nazionali.

Senza alcun dubbio servono riforme istituzionali come l’abolizione del voto all’unanimità e del potere di veto. Ma sul versante delle elezioni europee, può essere fatto uno sforzo “extra-istituzionale”, specialmente da parte dei media nazionali e - in misura maggiore - dai partiti nazionali, i contendenti di fatto di queste competizioni elettorali.

Forza Italia, insieme ad Alternativa Popolare e al SVP appartengono al Partito Popolare e quindi sostengono (o sosterrebbero) Ursula Von der Leyen. Per il PSE c’è il Partito Democratico. Fratelli d’Italia appartiene ai Conservatori e Riformisti Europei. E Giorgia Meloni è leader di entrambe le organizzazioni. La Lega è parte di Identità e Democrazia. Per Renew Europe corrono (separati) Azione e la lista Stati Uniti d’Europa che riunisce principalmente +Europa, Italia Viva, Partito Socialista Italiano, Radicali Italiani, Libdem europei e L’Italia c’é. Riguardo Alleanza Verdi Sinistra, parte di questa “lista” appartiene ai Verdi Europei, ma alcuni dei suoi candidati si riconoscono di più nel Partito della Sinistra Europea. Un caso particolare è il Movimento 5 Stelle che non appartiene a nessun Eurogruppo e che nell’ultima legislatura europea (2019-2024) ha fatto parte del gruppo dei “Non Iscritti”.

Molto probabilmente, questi partiti sono i principali “colpevoli” di non dare alle elezioni per il Parlamento europeo la giusta importanza, basti vedere l’adozione dei simboli elettorali che sono sempre quelli partiti nazionali; di recente, quelli più conosciuti, includono in diversi modi riferimenti all’Eurogruppo di appartenenza. Addirittura, la Lega dal 2018 usa lo stesso simbolo con il cognome del suo leader e la dicitura “premier”, che nulla ha a che vedere con gli Spitzenkandidaten.

Il problema di europeizzare le elezioni non si limita solo a quello, ma si estende anche ad altri aspetti, come la mancanza di un collegio “transnazionale”, che richiederebbe una campagna elettorale ancora più impegnativa in tutta l’Unione.

Comprensibilmente, i cittadini/elettori non sanno che votando quel partito si dà il consenso per quel candidato per l’esecutivo europeo, ciò può creare confusione e, forse, ancora più disinteresse. Per esempio, chi vota Forza Italia, quanto è probabile che sa di sostenere Von der Leyen?

Il sistema degli “Spitzenkandidaten“ è un meccanismo precario e che appare “facoltativo”, se non addirittura inutile. “Candidati principali” già non significa “eletti sicuri”, in più, sono i Governi dei ventisette Stato a proporre un candidato al Parlamento europeo, in quanto tale nomina è competenza del Consiglio, geloso delle proprie prerogative e della necessità di considerare gli equilibri tra i vari Stati membri.

Euronews parla apertamente di “farsa politica”: si simula una competizione elettorale come quella di un qualsiasi Paese membro senza che poi vi sia una ricaduta reale al momento delle nomine, che rimangono appannaggio dei Governi. Il che, probabilmente, spiega il disinteresse nei confronti del dibattito.

Per quanto riguarda la parte mediatica, le fonti non mancano, come si può vedere dai siti degli Eurogruppi e quelli delle Istituzioni dell’Unione europea. Serve un grande sforzo da parte dei partiti nazionali per evidenziare la “dimensione europea” di questa competizione elettorale, ma anche i cittadini/elettori potrebbero fare la loro parte informandosi usando come bussola la domanda ”perché votare anche alle elezioni europee?” vedendola finalmente non più come un torneo di calcetto locale, ma come un’occasione di dare una direzione all’Unione, la quale potrebbe essere scoperta come una (diversamente) nuova comunità politica.

Non a caso che l’Unione europea ha scelto come slogan “#UsaIlTuoVoto”. Il prossimo passo è decidere a chi volerlo dare.

Note

[1“Appare infatti subito evidente ai Parlamentari europei la necessità di passare dall’elezione di secondo grado a quella di primo grado per una ragione funzionale (evitare il doppio mandato per le difficoltà inerenti al suo assolvimento) e, soprattutto, per una ragione politica (l’elezione diretta come mezzo per stabilire un più immediato ed effettivo rapporto di rappresentanza politica tra i parlamentari stessi e i popoli europei).” - Dell’Omodarme, 1971

[2Dell’Omodarme Marcello, “Ruolo e azione del Parlamento Europeo per l’elezione a suffragio universale diretto dei suoi membri”, Il Politico, Vol. 36, No. 4 (Dic. 1971), pp. 775-781

[3La prima risoluzione, del 28 giugno 1961, evidenziava l’importanza delle riunioni al vertice per l’attuazione del Progetto di Convenzione del 1960. Nella seconda risoluzione, del 21 dicembre 1961, L’Assemblea/il Parlamento che “si dia esito a questo Progetto e che venga stabilito il termine entro il quale avranno luogo le prime elezioni”. (Dell’Omodarme, 1971)

[4Non sono comunque mancate idee sulla procedura elettorale, a cominciare dalla proposta inclusa nel Progetto di Convenzione del 1960, il quale prevedeva il numero triplicato dei parlamentari europei, nonché un periodo transitorio dalle delegazioni dei parlamenti nazionali ai membri eletti a suffragio universale. Si prevedeva l’età minima per votare (diritto di voto attivo) a 21 anni e quella per essere votati a 25 (diritto di voto passivo) e che le elezioni avvenissero lo stesso giorno. Era esclusa l’elezione suppletiva. Tempo dopo, Andrew Duff, britannico, già presidente dell’Unione dei Federalisti Europei (UEF) e eurodeputato per il gruppo ALDE propose nella legislatura europea 2009-2014 un’armonizzazione delle procedure elettorali esistenti.

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