Green Deal vs Protesta dei Trattori: un grosso tassello di un mosaico più ampio

, di Michelangelo Roncella

Green Deal vs Protesta dei Trattori: un grosso tassello di un mosaico più ampio
Foto di David Jenne da Pixabay

Il Green Deal, proposto dalla Commissione europea per affrontare il cambiamento climatico, è oggetto di proteste degli agricoltori di diversi Paesi europei. La legge sul ripristino della natura, mirante a ripristinare la biodiversità, suscita preoccupazioni tra i coltivatori, già alle prese con l’aumento dei prezzi e la concorrenza esterna. La Commissione cerca di mediare, ma il dibattito rimane acceso: come conciliare agricoltura sostenibile ed esigenze ambientali con così tante parti interessate?

Il Green Deal, una serie di normative proposta della Commissione europea per affrontare il cambiamento climatico e per promuovere una transizione ecologica, sta subendo le proteste degli agricoltori di gran parte d’Europa Partite dalla Germania, si sono rapidamente diffuse in Francia, Paesi Bassi, Italia, Polonia, Romania, Ungheria, Repubblica Ceca, Grecia e Lituania.

La conversione dell’economia (ma non solo) richiede dei cambiamenti molto forti nei modi di produrre, di spostarsi e di vivere: dai rifiuti ai trasporti, dall’energia all’agricoltura. Tutti settori i cui interessi e bisogni non riescono a conciliarsi con le esigenze ambientali, rese evidenti con le mobilitazioni degli ultimi anni, soprattutto dai giovani che - aldilà di narrazioni apocalittiche - subiranno le conseguenze dei cambiamenti climatici.

Riguardo al settore agricolo (che varia non solo tra paesi, ma anche tra regioni), la legge sul ripristino della natura, che ha come scopo quello di ripristinare la biodiversità, prevede sia l’abbandono dei pesticidi sia di lasciare “a riposo” alcune parti (il 4%) dei terreni. Questo, l’aumento dei prezzi e la schiacciante concorrenza della grande distribuzione (non ultimo il grano ucraino e l’accordo con il Mercosur), sono le principali ragioni che accendono gli animi di piccoli e medi agricoltori, che, oltre a non ricevere i fondi della PAC, non si sentono rappresentati nelle organizzazioni di categoria.

Le proteste vogliono rappresentare degli interessi legittimi che non solo sono in collisione con le esigenze ambientali, ma che rischiano di essere strumentalizzate da certi schieramenti in nome di un presunto anti-europeismo o di un più generico “stare dalla parte degli oppressi”.

Mentre queste proteste si diffondono nel continente verso le sedi Istituzionali regionali, nazionali ed europee, la Commissione europea cerca attivamente di venire incontro agli agricoltori diretti, rivedendo la riduzione di emissioni di gas dal settore agricolo (prevista al 30% entro il 2040), proponendo più sussidi e ritirando la proposta di regolamento europeo sull’uso dei fitosanitari, cioè i pesticidi usati anche in agricoltura. Oltre alle pressioni in ambito agricolo, tale proposta incontra difficoltà nella sua approvazione al Parlamento europeo e al Consiglio, senza però rinunciare all’obiettivo di un’agricoltura sostenibile.

Il ripiego su alcuni punti del Green Deal è considerata una vittoria degli agricoltori (e di alcuni schieramenti che si prendono il merito): questo episodio può essere considerato un esempio di “politica” in due sensi:

  1. La politica come “provvedimento” (policy), con il quale la Commissione europea si sta adoperando (non senza difficoltà) per dare una risposta efficace all’emergenza climatica.
  2. La politica come “scontro” (politics): questo significato è comunemente inteso come “lotta per il potere”, ma in questo caso è un conflitto tra interessi diversi, tra l’agricoltura e l’ecologia. La Commissione europea ha voluto venire incontro a queste proteste, cercando di continuare gli obiettivi del Green Deal. Un ruolo costruttivo di mediazione che è fondamentale con altri interessi, quali i trasporti, le industrie dei veicoli, il settore energetico, la manifattura, le rappresentanze di varie categorie sociali, eccetera. Si prevede quindi uno sforzo intenso.

Ma diamo un’occhiata più approfondita ai soggetti della storia, accompagnata da alcune riflessioni. Si parte dai pesticidi, la proposta di regolamento prevedeva la riduzione a metà del loro uso entro il 2030. La domanda è: perché queste sostanze di origine chimica sono utilizzate in agricoltura? Il loro scopo è quello distruggere organismi nocivi che possono danneggiare le piante, quindi anche le colture. Gli effetti collaterali sono il loro (parziale) assorbimento nelle piante e la “dispersione” nell’ambiente (il terreno, l’acqua e l’aria) con effetti sui prodotti per l’alimentazione umana, sugli altri organismi - inclusi quelli “micro”, importanti per la biodiversità - e sulla fertilità [1] dei suoli, la quale rischia di diventare sempre più compromessa (si pensi agli altri usi del suolo, come l’edilizia oppure le infrastrutture). Secondo gli esperti, la soluzione sarebbe l’adozione di tecniche più sostenibili come l’agricoltura di precisione. Queste però sono alternative più recenti e servirà del tempo per la loro promozione, diffusione e la loro messa in pratica. Naturalmente il problema e le soluzioni sono questioni più ampie.

Passando ai sussidi, sostegni economici per le aziende agricole previsti nei fondi della Politica Agricola Comune (che è una buona fetta del bilancio dell’unione Europea), questi vengono stabiliti (anzi contesi) dagli Stati membri che, succesivamente, distribuiscono agli operatori del settore agricolo. Secondo un articolo di Guido Silvestri sul Fatto Quotidiano, “l’80% dei fondi va di fatto a solo il 20% delle aziende più grandi lasciando i più piccoli e quelli di medie dimensioni a bocca asciutta”. L’aumento dei sussidi promesso da von der Leyen è giustificato dall’aumento dei prezzi del gasolio agricolo, dei fertilizzanti, nonché i danni alle coltivazioni dovute alla siccità e ai disastri. Comunque, secondo alcuni esponenti politici, gli agricoltori più che i sussidi vorrebbero una concorrenza più leale.

Un tema di recente sviluppo concerne la sfera dei cibi “artificiali”, come la carne coltivata o le farine di insetti: questi appaiono sotto ogni punto di vista come una buona alternativa ai prodotti agricoli. Ad essi si oppone una questione identitaria che può facilemente venir riassunta con la frase “siamo quel che mangiamo”. Il Governo italiano, in particolare, ha condotto una battaglia politica, coinvolgendo gli altri Paesi membri per richiedere delle indagini e un confronto sul tema prima di una sua commercializzazione. La carne coltivata, secondo alcuni esperti, porta a dei vantaggi per la salute e l’ambiente, come l’assenza o la bassissima emissione di CO2 a differenza degli allevamenti, soprattutto quelli intensivi. Prodotti tradizionali e carne coltivata possono coesistere? Tecnicamente sì, politicamente appare molto difficile, anche con la Politica con la “P” maiuscola: di per sè è legittimo difendere le specialità locali (è qualcosa che va oltre il “made in italy”), tuttavia finché non si cambia la tendenza sui metodi di coltivazione, queste novità non andrebbero buttate via. Un buon esempio è testimoniato dalla Coldiretti: pur respingendo la carne coltivata come alimento, la proporrebbe come un possibile farmaco da sottoporre all’apposita Agenzia europea. Una possibile idea potrebbe essere la produzione/distribuzione della carne coltivata in zone dove non siano possibili allevamenti, dove ci sono quelli intensivi, oppure in zone dove il risanamento è più richiesto.

Per quanto riguarda la rotazione delle colture, questa antica pratica è resa obbligatoria dalla PAC recentemente riformata e dovrebbe sostituire le monocolture, garantendo maggiore biodiversità e fertilità, evitando fenomeni dannosi di una specifica coltura. Un articolo sul Corriere della Sera, riporta le difficoltà legate all’abbandono delle mono-produzioni in Italia, che sono principalmente mais a Nord e grano a Sud che sono colture depauperanti [2].

Non è facile cambiare le colture. Soprattutto quando le aziende devono rispettare contratti con i fornitori, a cui dover garantire determinate quantità di grano a fronte di una produzione che all’improvviso viene dimezzata”.

L’articolo evidenzia il dilemma tra dimezzare la produzione usando parte dei terreni o rinunciare agli incentivi dell’Unione, basati sul numero degli ettari e sulla coltura destinata (grano e mais). Inoltre la fine della monosuccessione colpirebbe altri settori collegati alle colture: nel caso del mais nel Nord Italia, sarebbero danneggiate anche le produzioni del latte e dei salumi.

In risposta, oltre a vantaggi biologici e ambientali, la rotazione delle colture una volta avviata in modo efficiente, sul piano economico garantirebbe un continuo guadagno, riduzione dei rischi e una migliore organizzazione del lavoro (aspetto nel quale richieste specifiche competenze sia nelle tecnologie sia nelle diverse colture).

Nonostante questi vantaggi e i suggerimenti, le difficoltà degli agricoltori sono comprensibili: non basterebbe cambiare il modus operandi da parte dei singoli produttori, bensì un approccio più sistematico che accompagni gli agricoltori al metodo della rotazione senza pesanti colpi. Sarebbe quindi auspicabile - espressione forse azzardata - una fase di “Flessicurezza” agricola.

Infine, ma non per importanza, la concorrenza esterna: di recente l’Unione Europea e il Mercosur stanno portando avanti degli accordi commerciali. La critica che fanno gli agricoltori concerne l’importazione di prodotti agricoli dai paesi sudamericani i cui prezzi sono inferiori a quelli europei e non sono sottoposti alle regole comunitarie su salute e sicurezza alimentare. Quest’ultimo punto - non molto diverso dai casi del TTIP e del CETA del decennio precedente - è la versione agricola del più generale problema della concorrenza “sleale”, che promuove prodotti poco costosi. Spesso questi prodotti e, quindi, anche il loro commercio, possono essere dannosi per la salute e per l’ambiente. il tutto avviene a discapito di un sistema sociale ed economico che necessita di “cose fondamentali oltre che sgradevoli” come le regole, le etichette, i controlli e i prezzi…

Per concludere, la protesta dei trattori ha il “mezzo-merito”di far parlare del Green Deal. Lo definisco in questo modo perché questo piano viene evidenziato in negativo come se lo scontro tra agricoltura e ambiente fosse insanabile. Questo modo di vedere il contrasto ha un grande impatto mediatico, ma queste esigenze possono essere conciliate, aldilà di estremismi e di strumentalizzazioni. Ambiente e agricoltura condividono un problema: i cambiamenti climatici e le sue conseguenze. La Commissione europea sta cercando di svolgere il ruolo istituzionale di mediare tra necessità diverse, indicando comunque una direzione, che in questo caso è la transizione ecologica, senza bisogno di essere neutrale. Un “doppio-ruolo” difficile, ma non impossibile.

I temi dell’ambiente, dell’agricoltura e del Green Deal hanno l’opportunità di essere trattati (con il rischio di esasperazioni) nella campagna elettorale per le prossime elezioni europee: è un’occasione per trattare un tema sovranazionale come tale, nonché (cosa molto difficile) un dibattito che possa far riflettere come applicare le politiche ambientali e far conciliare, nelle norme ma non solo, l’agricoltura e altri settori (non trattati in questo articolo), anche se c’è il rischio di cadere nei tecnicismi.

L’incontro tra le due esigenze è sostenuto con convinzione da Monica Frassoni dei Verdi Europei e, in passato, Presidente della JEF Europe. Durante il Congresso dei Verdi Europei a Lione, in una breve intervista per AGI, Frassoni afferma che lo scontro tra agricoltura e sostenibilità “è solo un paradosso apparente”.

Le proteste che bloccano le nostre strade vanno affrontate con ragionevolezza ed empatia perché tantissime persone non riescono più a sostenere la fatica e i costi di un’attività indispensabile ma il Green Deal - visto come un capro espiatorio - c’entra poco”.

Ancora uno spunto di riflessione: si parla spesso di obiettivi e fondi, ma nel concreto come fare questa transizione ecologica? Quali sono le azioni, a parte il Green Deal?

Oltre a una riforma in senso federale dell’Europa, è necessario un bilancio europeo finanziato con risorse e fonti proprie, a prescindere dalle risorse stabilite dagli Stati membri, come il caso della PAC, in modo che possa finanziare le azioni richieste dal Green Deal coinvolgendo direttamente le parti più interessate, inclusi i piccoli e medi agricoltori.

Non bastano, però, riforme istituzionali dell’Unione: considerando che il Green Deal ha una portata più ampia di ambiti, oltre alle elezioni e ai piani “dall’alto” (Bruxelles, ma non solo), è necessario l’aiuto (e il coinvolgimento) di tantissimi soggetti, non solo per stabilire le politiche, ma anche attraverso pratiche dal basso, anche quotidiane come proposto da un agricoltore locale, il quale sostiene che i soldi per il Green Deal andrebbero spesi proprio per questi comportamenti. Perché in fondo, agricoltori, ecologisti, operatori economici, lavoratori, cittadini, persone, animali, vegetali e altri organismi sono tutti nella stessa barca.

Note

[1Secondo Legambiente, la fertilità del suolo necessità di una rigenerazione fino a mille anni.

[2Le colture sono principalmente distinte tra “colture miglioratrici” e “colture depauperanti”, che devono essere combinati in modo tale da rendere la rotazione efficace.

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