Gli equilibri geopolitici sono in continua evoluzione. L’emergere della Cina ha spinto gli USA a cercare di rafforzare la sponda europea con il TTIP: è così che da due anni, ormai, sentiamo dire questa parola e, con il passare del tempo, l’accumularsi delle sessioni di negoziati e l’acuirsi dell’attenzione pubblica, stiamo imparando a conoscerla. Vediamo ora anche gli schieramenti sul campo. I liberisti, in ossequio all’applicazione della teoria del vantaggio comparato di David Ricardo, ne approvano la ratio, prevedendo più efficienti scambi commerciali fra Unione europea e USA. Quanti vogliono difendere i diritti e le garanzie acquisite di lavoratori, produttori e consumatori, al contrario, sono per una revisione radicale dei termini dell’accordo in discussione o per un’interruzione definitiva dei negoziati in corso, temendo una grave menomazione dei diritti. Considerato che il TTIP coinvolge aree che rappresentano il 50% degli scambi commerciali a livello mondiale e considerate, soprattutto, le conseguenze economiche e politiche che potrebbe avere sul processo di integrazione europea, riteniamo che sia ora opportuno tentare di darne una prospettiva federalista europea.
Partiamo dall’essenza della materia, chiedendoci: cos’è il TTIP? Il TTIP (in italiano, “parternariato transatlantico per il commercio e gli investimenti”) è un trattato a metà fra l’accordo di libero scambio (per la riduzione/abolizione dei dazi doganali fra le due aree) e l’unione economica (per gli standard comuni di produzione che si intende raggiungere – espressi nel mandato in capo alla Commissione europea). Quale di questi due aspetti è quello preminente? Senza dubbio, il secondo: le tariffe doganali medie e ponderate, attualmente, sono, da parte di entrambe le aree, molto basse, fra il 2 e il 3%; un’ulteriore riduzione non può, quindi, produrre grandi risultati. Un più forte incentivo, invece, all’aumento degli scambi potrebbe venire dall’abolizione delle barriere non tariffarie, cioè dei diversi standard legali di produzione che rendono dispendioso, per un’impresa di una delle due aree, commerciare oltreoceano.
A quali cambiamenti macroeconomici, allora, tutte queste misure potrebbero portare? Essendo l’accordo ancora in fase di negoziazione, non ci sono risposte che possano soddisfare con certezza la domanda. Esistono, però, delle stime. Oggi disponiamo di almeno cinque studi sul tema: Ecorys (2009) [1], CEPR (2013) [2], CEPII (2013) [3], Bertelsmann (2013) [4], Capaldo (2014) [5]. I primi quattro si fondano sul modello della Banca mondiale, sostenuto da assunti della teoria economica neoclassica; l’ultimo sul modello dell’Onu, di matrice keynesiana. I risultati non sono congruenti, sotto diversi ambiti. Guardiamone, quindi, le tendenze comuni. La più importante è l’aumento dei flussi commerciali fra Unione europea e USA (verso Washington stimati dal 28 al 60%; verso il Vecchio continente dal 37 all’80%) e la corrispondente diminuzione del commercio intra-europeo (le stime vanno dal 2 al 42% di calo). Una seconda importante tendenza comune, poi, è il prevalere degli interventi sulle barriere non tariffarie nel provocare questi cambiamenti. Soffermiamoci sulla prima delle due e torniamo al nostro scopo di partenza: tentare di dare una prospettiva federalista al TTIP. È conveniente per il processo di integrazione europea, in un momento cruciale per il suo destino, aumentare l’interdipendenza economica con gli USA e diminuirla al proprio interno? E, avendo sollevato il tema dell’integrazione europea, ci viene spontaneo chiederci anche: un accordo fra uno Stato retto da un governo federale con un bilancio che conta per oltre il 25% del suo pil e un’unione monetaria senza un vero governo federale e con un bilancio inferiore all’1% del suo pil è un accordo equo, può produrre condizioni eque? La risposta che ci diamo è: chiaramente no. L’Unione europea, per non essere il partner debole nell’accordo, deve prima dotarsi di un governo federale dell’eurozona con un bilancio che abbia reali capacità perequative e definire, al contempo, i diversi gradi di integrazione al proprio interno.
Passando alla seconda tendenza, che barriere non tariffarie potrebbero essere abbattute? Principalmente, due: i diritti dei lavoratori (non dimentichiamo che, se l’Unione europea ha aderito alle convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro, gli USA non l’hanno ancora fatto [6]) e le garanzie sulla qualità – e sulla provenienza – dei beni (una divergenza fondamentale fra le due aree è la licenza nella commercializzazione dei beni: l’Ue applica il principio prudenziale; gli USA richiedono evidenza scientifica della pericolosità di un bene, per bandirlo). In questo caso, un primo segnale di tutela dei diritti l’ha dato il Parlamento europeo l’8 luglio scorso, quando, oltre ad ascoltare l’audizione di Tsipras, ha approvato una risoluzione sul TTIP che richiede, fra le altre cose, l’applicazione del principio di prudenza nella commercializzazione dei prodotti, protezione giuridica ai marchi di indicazione geografica dell’Unione e degli organi pubblici di giurisdizione sulle dispute [7]. Ma la difesa di una linea non può essere mantenuta, se non si ha la forza per farlo (il governo responsabile di fronte al Parlamento europeo e il bilancio federale).
Anche nel momento in cui l’Unione europea si sia dotata di un governo e un bilancio federale, tuttavia, verrebbe ancora a mancare un elemento necessario alla firma del TTIP: una riforma dell’ordine monetario internazionale. Ci dice il perché il post-NAFTA (accordo di libero scambio fra Canada, USA e Messico) del 1994: dopo la firma, il Presidente Clinton dichiarò che si sarebbero creati milioni di posti di lavoro negli USA. I fatti risposero con settecentomila posti di lavoro in meno [8]. Motivo? Il valore dimezzato alla fine del 1994 del peso messicano, che spostò la bilancia commerciale fra i due Paesi dalla parte di Città del Messico. Per avere conseguenze certe e controllabili dalla firma del TTIP, è, quindi, imprescindibile la formazione di un sistema monetario internazionale stabile, che non può che imboccare la strada di un’unica valuta mondiale. Altrimenti, non immaginiamo le conseguenze sul TTIP di drastiche oscillazioni delle monete di due aree che pesano per il 50% degli scambi commerciali e per l’80% di quelli finanziari dell’intero pianeta.
L’Unione europea, in conclusione, è bene che in primo luogo risolva le proprie fragilità istituzionali. In un secondo momento, potrà sfruttare il TTIP come leva per riformare il sistema monetario internazionale e per portare alcuni diritti, insieme a beni fisici e finanziari, anche oltreoceano.
Devo ringraziare Domenico Moro, coordinatore dell’Ufficio del dibattito del Mfe, autore della relazione scritta “Il “trattato transatlantico” (TTIP): nucleo o ostacolo di un nuovo ordine mondiale economico-monetario?” tenuta al convegno “Le grandi aree commerciali e i loro rapporti: il negoziato transatlantico” organizzato presso la Fondazione Einaudi di Torino il 20 maggio scorso, della quale questo articolo rappresenta in gran parte una riduzione.
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