La prima metà di un articolo che approfondisce storia e politica del Montenegro e il suo posizionamento verso l’Europa, nel passato e nel presente

Il Montenegro nelle guerre jugoslave: una nazione divisa - Parte I

, di Dino Šabović

Il Montenegro nelle guerre jugoslave: una nazione divisa - Parte I
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Il Montenegro è uno dei Paesi meno conosciuti nel contesto europeo, malgrado la sua storia secolare che a più riprese si è intrecciata con i diversi Paesi all’infuori del solo contesto balcanico. Ed è proprio su questo presupposto che questo articolo si viene a formare: cioè dare una chiara visione sia storica che sociale di questo piccolo Stato che ambisce a divenire membro dell’Unione Europea. Ma anche per dare alcuni strumenti di base per comprendere perché, oggi giorno, il Montenegro sia turbato internamente da attriti etnici-religiosi. In questa prima parte ci si concentrerà sull’ excursus storico del Montenegro, dalla sua agglomerazione nel Regno di Jugoslavia al suo ruolo nella Jugoslavia socialista, tenendo sempre in debita considerazione la narrativa sull’identità montenegrina.

Gli anni che seguono il processo di abbattimento del muro di Berlino danno nuova linfa vitale ai movimenti nazionalisti dei diversi Paesi che furono sotto l’influenza dell’Unione Sovietica. Uno spirito di rivendicazione nazionale sovranista che non coinvolge solo questi Paesi, ma anche le diverse etnie che vissero, per più di settant’anni, nel progetto della Jugoslavia [1]. Una realtà sociopolitica che si forma all’indomani della Prima Guerra Mondiale (cioè un’unione di diversi popoli slavi balcanici in un unico progetto nazionale) [2] [3] e che durerà fino ai primi anni Novanta nella forma di una federazione di repubbliche sotto la guida iniziale del dittatore socialista Josip Broz “Tito” e poi del serbo Slobodan Milošević (sceso al potere nel 1987) [4]. E sarà proprio il deflagrare della Jugoslavia negli anni Novanta a portare l’Europa, dopo quasi cinquant’anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, a rivivere il trauma di una nuova guerra tra europei: cioè le guerre jugoslave.

Senza ripercorrere nel dettaglio i motivi della deflagrazione della Jugoslavia socialista, si dica che a partire dalla fine degli anni Ottanta vi fu una campagna di proteste di piazza (sotto il nome di “rivoluzione antiburocratica”) che rovesciarono i Governi autonomi di Vojvodina e Kosovo che fino al 1989 avevano goduto di un proprio statuto autonomo grazie alla costituzione del 1974 [5] [6]. Province che furono assoggettate al completo controllo del Governo di Milošević e della sua cricca, questo nonostante il fatto che la prima presentava una rilevante minoranza di ungheresi, rumeni e slovacchi; e la seconda una forte maggioranza di albanesi. Questo diede una svolta ancora più centralista alla Jugoslavia post-Tito. Non solo queste ultime due, però, saranno travolte dai moti della rivoluzione antiburocratica: fu invece il caso anche dell’allora Repubblica Socialista di Montenegro.

Quest’ultima, a differenza delle due Province sopra menzionate, era una vera e propria entità federata della Jugoslavia. Questo a partire dal 1944, quando le fu riconosciuto il titolo di Repubblica Socialista. sancendone così l’autonomia dalla Repubblica Socialista di Serbia al pari di quella croata, slovena, bosniaca e macedone [7]. Pertanto, si andava a rispettare e a garantire una maggiore autonomia delle diverse etnie jugoslave. Questo in particolar modo per i montenegrini che non avevano più avuto una propria indipendenza a partire dal 1918: quando l’allora Regno di Montenegro fu agglomerato nel Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (poi dal 1922 Regno di Jugoslavia) [8] e ceduto ai serbi in qualità di provincia serba, disconoscendo così ogni tipo di possibile autonomia [9].

In ogni caso, al finire degli anni Ottanta la piccola Repubblica Federale versava in una situazione economica critica (di preciso l’entità federale di Montenegro era quella in condizioni economiche peggiori rispetto le altre entità federate della Jugoslavia) [10] a cui la dirigenza della Lega dei Comunisti di Montenegro era incapace di porre rimedio. Vista la situazione, e sotto gli slogan di “Ovaj narod traži hljeba, zato bolja vlada treba” (Questo popolo vuole pane, e per questo serve un migliore governo) e di “Slobodane, Srpski sine, kad ćes doći na Cetinje? Kad ćes doći pod Lovćenom? Čekamo te sa ordenom!” (Slobodan, figlio serbo, quando verrai a Cetinje? Quando verrai sotto il Lonćen? Ti aspettiamo con una medaglia!), nel gennaio del 1989 vi sarà il rovesciamento del Governo della Lega dei Comunisti di Montenegro. Questo porterò al governo i cosiddetti “Giovani Montenegrini”: un gruppo di nuovi dirigenti, guidati da Momir Bulatović, vicini alla cricca di Milošević e sostenitori sia dell’unità tra Serbia e Montenegro che di una leadership serba della Jugoslavia [11]. Si dica, a scanso di equivoci, che l’attuale Presidente del Montenegro Milo Đukanović farà parte di questa nuova leadership montenegrina per poi, a partire dalla metà degli anni Novanta, distanziarsene e farsi promotore e fautore dell’indipendenza montenegrina.

A seguito dei movimenti della Rivoluzione Antiburocratica, che aveva avuto un cupo successo nelle due ex province autonome, gli equilibri jugoslavi erano stati cambiati irrimediabilmente a favore dei serbi [12], soprattutto dal momento che la Repubblica Socialista di Montenegro si era allineata con i progetti di Milošević. Le altre realtà etniche, slovena, croata e bosniaca, temendo di finire sotto il dominio incondizionato di Milošević al pari delle altre realtà sopra menzionate, nonché sotto il controllo della maggioranza serba, cominceranno, a partire dalla Slovenia (1991) — che si ritroverà coinvolta nella guerra dei dieci giorni [13] — a dichiarare la loro indipendenza dalla Federazione. Ciò porterà nell’arco di poco tempo alle cosiddette guerre jugoslave, protrattesi lungo tutto l’ultimo decennio del Novecento e conclusesi con due interventi esterni: nel 1994 avrà fine la guerra in Bosnia-Erzegovina (1992-1995) [14] e il raggiungimento degli accordi di Dayton (1995) [15] [16]. E nel 1999, a seguito del secondo intervento NATO nei Balcani [17], avrà fine la guerra in Kosovo [18].

Pertanto, uno dei principali motivi della deflagrazione jugoslava è che le diverse etnie jugoslave non erano concordi ad essere eventualmente assoggettate al potere panserbo di Milošević, soprattutto dal momento che serbi e montenegrini (il 40% della popolazione jugoslava) detenevano un rilevante potere sia in politica che nelle forze armate [19]. Vero è che il leader serbo non aveva mai fatto segreto sia delle sue ambizioni che di quelle del popolo serbo di avere un ruolo di guida nel mondo Sud-slavo. Un’aspirazione che aveva alla base l’idea di una Serbia quale Piemonte balcanico. Questa visione nasce nei secoli di dominio ottomano e poi concretizzatosi nel Regno di Jugoslavia, dove la famiglia reale serba dei Karađorđević era l’assoluto detentore del potere decisionale [20]. In ogni caso, l’ideologia del panserbismo avrà una battuta d’arresto a partire dalla Seconda Guerra Mondiale fino alla salita al potere di Milošević, quando ritornerà dirompente sulla scena politica della morente Jugoslavia socialista [21]: questo a partire dalla metà degli anni Ottanta quando un gruppo di intellettuali e figure militari serbe denunciano, mediante il Memorandum SANU del 1986, il declino dell’identità serba e il bisogno di rivitalizzarla in una Jugoslavia pensata per mantenere la Serbia debole [22].

Ma allora per quale motivo i montenegrini si accodarono, in un primo momento, alla scellerata politica di Milošević, per poi distanziarsene gradualmente? La risposta non è facile. Ma attraverso un breve percorso storico si potrà dare una risposta il più esaustiva possibile a tale quesito e comprendere in questo modo perché il Montenegro, lungo la sua storia, si sia ritrovato a più riprese a ridefinire sia la sua posizione in Europa che la sua identità nazionale.

È a partire dal XIX secolo che Montenegro e Serbia vivranno un graduale avvicinamento in nome di una lotta congiunta sia contro il dominio ottomano che austro-ungarico [23]. Questo dal momento che il Montenegro era l’unica entità all’interno della Sublime Porta ad aver sempre mantenuto un minimo di autonomia. Questo grazie agli sforzi bellici e insurrezionali dei montenegrini, che sfruttarono al meglio il proprio territorio impervio: come affermato dai comandi militari italiani nel XIX secolo, nel Montenegro roccioso ed arido, un esercito piccolo sarebbe sconfitto e un grande esercito morirebbe di fame [24]. Oltre che alla particolare costituzione territoriale, tale resistenza sarà possibile anche grazie alla figura del Vladika (un principe vescovo eletto dai diversi clan che abitavano il Montenegro e che deteneva il potere di chiamare i diversi clan alla guerra; una struttura sociopolitica era rintracciabile solo tra i montenegrini e capace di organizzare i diversi clan, spingendo così gli ottomani a riconoscerne lungo i secoli l’autonomia. Un’autonomia che si trasformerà in indipendenza formale nel 1858 e poi sostanziale il 13 luglio 1878, a seguito del Congresso di Berlino [25]. Questo portò così il popolo montenegrino ad essere considerato, dagli altri popoli slavi — soprattutto di quelli del Sud-Europa, che vivevano sotto la spartizione ottomana ed austro-ungarica - come redentore della loro indipendenza. Tant’è che San Pietroburgo elogerà di continuo il Montenegro quale massima espressione filorussa nei Balcani. Questo, almeno, fino agli inizi del Novecento.

Vista questa peculiarità guerriera del piccolo popolo balcanico, i serbi non esiteranno a definire il Montenegro come la “Srpska Sparta” (Sparta Serba), perché convinti che tale territorio era (è) abitato dai discendenti dei fuggiaschi serbi durante l’avanzare e la vittoria delle forze ottomane nei Balcani dopo la sconfitta in Kosovo nel 1389 [26]. Divenendo così, sotto questa narrazione, l’unico territorio libero da dove i serbi continuavano la loro lotta sia contro gli ottomani che alla conversione all’Islam degli slavi, nonché baluardo del cristianesimo ortodosso nei Balcani [27].

Questa narrativa serba porterà con sé non indifferenti problemi alla definizione di un’identità montenegrina: cioè di una propria cultura, lingua e storia. Producendo tra i diversi clan in Montenegro un intenso dibattito se il montenegrino dovesse essere qualcosa di distinto dal serbo oppure no [28]. Ma era chiaro che tale narrativa aveva come scopo quello di estendere il dominio serbo sul Montenegro e soprattutto sulle sue coste. Di preciso, questa narrazione era per lo più propugnata dalla Chiesa Ortodossa Serba (Srpska Pravoslavna Crkva) che sosteneva, e sostiene, che il Montenegro sia la terra che ospita i serbi più puri, dal momento che questo territorio sarebbe un’isola serba in un mare musulmano a tutela del Cristianesimo Ortodosso [29], che pertanto essa sia parte integrante del grande Stato di Serbia e non vi sia nessuna differenza tra serbi e montenegrini [30]. Questo anche dal momento che il Montenegro, al pari di Macedonia, Bosnia-Erzegovina e diversi territori in Croazia, Bosnia-Erzegovina, Albania e Grecia, era stato dal XII al XV sotto il dominio del Regno medievale di Serbia [31]. Inoltre, sempre secondo i pope di Serbia, la medesima appartenenza etnica era anche dovuta dal fatto che entrambi condividevano la medesima religione e lingua. Questo chiaramente con l’intento di negare le differenze che vi erano: si segnali che il Montenegro, fino al 1918, possedeva una propria Chiesa Ortodossa con propri riti ed inoltre aveva un proprio distinto funzionamento sociopolitico che la distingueva, per forza di cose, dalla realtà serba [32] (si pensi solamente al ruolo dei clan e del Vladika) [33].

Nonostante ciò, è innegabile che durante il XIX secolo il Principe, nonché primo Re di Montenegro Nikola I Mirkov Petrović-Njegoš, non esitò a rintracciare accordi con la Serbia per quanto riguardava l’emancipazione dei Balcani dal dominio straniero. Ma questo anche con gli altri popoli Balcanici ed altri Stati come Russia e Francia per il perseguimento sia dell’indipendenza montenegrina che degli altri popoli [34]. Infatti, Nikola I sosteneva che i “popoli serbi” hanno il sacro dovere di ribellarsi e raggiungere un’unità nazionale [35]. Utilizzando il termine “popoli serbi” con accezione generale: infatti non vi era un significato di natura etnico-nazionale ma era per lo più riferito al comune credo ortodosso (come nel caso dei macedoni che non possono, per ovvie ragioni, essere indicati quali serbi, montenegrini, greci, bulgari eccetera) [36]. Pertanto, si deve precisare che sebbene Nikola I e i suoi sudditi si definivano come “popolo serbo” non significa che non vi fosse un’identità montenegrina, ma era un’espressione per lo più riferita al comune credo. Medesimo discorso per chi oggi giorno si definisce europeo: un individuo nel definirsi così non afferma di non essere italiano, tedesco, francese, etc., ma afferma solo una propria appartenenza a un determinato contesto regionale con particolari valori.

In ogni caso, Nikola I non approverà mai l’idea di una agglomerazione totale del Montenegro nella Serbia e cercherà sempre di mantenere l’unità nazionale, soprattutto a inizio Novecento, attraverso il compromesso tra chi si identificava montenegrino o serbo dal Montenegro [37]. Questa lotta intestina si tradurrà nei due gruppi parlamentari dei Zelenaši (i Verdi) che sostenevano un Montenegro indipendente e dei Bijelaši (i Bianchi) che invece ambivano all’unità con la Serbia [38]. Inoltre, il Re non esiterà a perseguire l’interesse nazionale cercando accordi con le altre cancellerie europee (come quella viennese o romana) [39] e di tutelare la sua dinastia dando in sposa le sue diverse figlie alle altre famiglie reali europee (si veda ad esempio il caso della figlia Jelena, data in sposa all’erede al trono italiano Vittorio Emanuele III) guadagnandosi in questo modo il soprannome di “suocero d’Europa”. E questi contatti diplomatici con l’Europa Occidentale aumenteranno ancora di più quando Belgrado diverrà la forza filorussa preferita da San Pietroburgo nei Balcani agli inizi del Novecento, diminuendo così il prestigio del Principato di Montenegro [40]. Visto questo cambio di direzione russo, Nikola I si troverà costretto a ricorrere sempre di più alla diplomazia bilaterale con altre potenze occidentali per preservare il suo Regno. Un atteggiamento che indispettirà sia i russi che i serbi, dal momento che entrambi avevano come obiettivo la totale sottomissione del Regno di Montenegro: necessario per poter avere il famigerato sbocco sui cosiddetti “mari caldi”. Questo porterà i due popoli slavi ad ostacolare i lavori con Nikola I per il raggiungimento di un accordo sia di unione militare che diplomatico tra serbi e montenegrini nel 1914, spargendo la voce che il Re montenegrino stesse lavorando contro i popoli slavi in ottica austroungarica [41] ; cosa poi dimostratasi falsa alla fine della Prima Guerra Mondiale, ma che fu efficace per screditare sia internamente che esternamente la famiglia reale di Montenegro che i montenegrini.

Si dica anche che il Montenegro, a partire dagli inizi del Novecento, si troverà in una situazione economica critica che agiterà molto i montenegrini. In questo scenario, Nikola I cercherà di risollevare l’economia e lo spirito nazionale attraverso diverse iniziative: egli cercherà di raggiungere un accordo con Vienna per ottenere un prestito per rilanciare l’economia [42], sostenuto anche dall’Italia per evitare che il Regno di Montenegro, disperato, potesse unirsi alla Serbia e scendere in guerra contro Vienna o persino allearsi con gli austro-ungarici. Inoltre, il 15 agosto 1910, ottenuto l’assenso delle principali capitali europee, si incoronerà Re e darà vita al Regno di Montenegro [43], che aveva come scopo anche quello di rincuorare i montenegrini con la promessa di uscire dalla grave crisi economica [44]. È chiaro che Nikola I era ben conscio del fatto che l’unico modo per mantenere l’unità nazionale era quello di evitare che i montenegrini percepissero la loro esistenza come qualcosa di precario. Pertanto, l’unico modo per assicurarsi una vita dignitosa era quella di cercare un’associazione con un altro Stato, quale la Serbia, capace di tutelare una loro esistenza felice e dignitosa. Chiaramente questo atteggiamento dei montenegrini rispondeva non tanto al desiderio di unirsi ad un’altra madre patria a cui loro si sentivano appartenenti, ma nel desiderio, tipico degli istinti di sopravvivenza, di assicurarsi il “pane a fine giornata”.

In questa ottica, si può ben spiegare perché Nikola I porterà in guerra i montenegrini sia nella Prima Guerra Balcanica che nella Prima Guerra Mondiale: perché credeva che con il raggiungimento di obiettivi strategici per il Montenegro sarebbe stato sufficiente per rallegrare gli animi nazionali e di rinvigorire l’unità nazionale. Si pensi solo che durante la Prima Guerra Balcanica, il Plenipotenziario montenegrino a Londra Lazar Mijušković, cercherà di convincere la Gran Bretagna, Russia, Francia ed Italia di concedere al Montenegro Scutari. Questo dichiarando che “i montenegrini sono risoluti a morire fino all’ultimo per Scutari” [45], ed ottenere così il controllo del Lago di Scutari; necessario, secondo gli strateghi slavi, per risollevare l’economia del Paese.

Un altro aspetto che emerge negli anni che precedono la Grande Guerra è che Nikola I non si allontanerà mai da quei valori di fratellanza con il mondo serbo. Infatti, all’indomani della guerra egli dichiarerà che “se vertenza dovesse degenerare in conflitto armato, il Montenegro non potrebbe virtualmente a motivo di idealità e di interesse restare impassibile e non prestare aiuto ai fratelli serbi” [46]. Questo sempre in ottica non etnico-nazionale, ma di comune appartenenza religiosa. Infatti, il primo agosto 1914 il Parlamento montenegrino dichiarava che il Montenegro sarebbe stato dalla parte dei serbi e lo stesso Re Nikola I chiamava i montenegrini a proteggere i serbi e l’ideologia jugoslava (cioè l’unione di tutti gli slavi del Sud in una grande entità territoriale corrispondente grosso modo ai Balcani) [47]. Quest’ultima ideologia ha radici profonde che risalgono agli anni ’60 del XIX secolo: quando Nikola I e Mihailo I (Re di Serbia) discutevano di un eventuale unione territoriale tra i diversi territori balcanici [48]. In un incontro fu promesso che in caso d’unione la dinastia del principe montenegrino sarebbe rimasta intatta e avrebbe potuto esercitare uno speciale controllo sul territorio montenegrino. Ma Nikola I non credette a lungo a queste lusinghe, dal momento che non vi era una reciproca fiducia tra i due popoli [49]. Eppure, con l’isolamento del Montenegro alla fine delle Guerre Balcaniche, Nikola I sarà sempre di più affascinato dalle promesse serbe di dargli un ruolo di rilevanza in caso della costituzione della Jugoslavia. Questo soprattutto per evitare che il Regno fosse lasciato alla mercé di altre Potenze non “serbe”.

Andando avanti, cosa meno nota alla storiografia balcanica, ma tragica per la storia del Montenegro, è il momento in cui Londra e Parigi, nel 1917, diedero il via alla Conferenza di Corfù, assieme ai Karađorđevic e ai rappresentanti croati e sloveni, per la creazione di uno Stato jugoslavo a fine guerra. Questo senza invitare il Re Nikola I, e pertanto il popolo montenegrino, costringendo quest’ultimo a sottostare ad un accordo a cui non avevano acconsentito. Nikola I non riconoscerà mai quest’atto delle Potenze Occidentali e cercherà anzi di tornare in patria per scongiurare la totale sottomissione del Montenegro a Belgrado, dopo essere stato costretto all’esilio in Francia su invito degli stessi francesi nel 1917. Egli sarà fermato e costretto a tornare in esilio dalla flotta francese [50].

In ogni caso, al concludersi della Prima Guerra Mondiale il Regno di Montenegro cesserà di esistere e il suo territorio sarà annesso dal nuovo Regno in qualità di provincia serba. Per quanto riguarda la Chiesa Ortodossa di Montenegro, essa sarà abolita e tutti i suoi possedimenti saranno ceduti alla Chiesa Ortodossa di Serbia e vi sarà, di conseguenza, il tentativo di eliminare l’identità montenegrina e di sostituirla con quella serba [51]. Vi sarà in ogni caso una resistenza dei montenegrini al dominio di Belgrado con l’obiettivo di riguadagnare l’indipendenza: tale resistenza sarà incarnata dai Zelenaši, sotto la guida del generale Krsto Popović, che condurranno una guerra civile, a seguito della Božićna Pobuna (Ribellione di Natale), dal 1918 al 1922 quando saranno sconfitti ed esiliati a Gaeta, in Italia [52]. Paradossalmente, il Regno di Montenegro sarà l’unico Stato vittorioso che dopo la Prima Guerra Mondiale perderà la sua indipendenza, diventando un alleato privo di alleati. Tant’è che sia Parigi, Londra e Washington manderanno forze di “peacekeeping” per consolidare il progetto di Jugoslavia e dei Karađorđević; l’unica eccezione sarà l’Italia, che si opporrà a tale unione per ovvi motivi strategici e dinastici [53].

Per quanto concerne gli anni della Seconda Guerra Mondiale, essi porteranno all’occupazione del territorio montenegrino da parte delle forze fasciste italiane, possibile grazie alla collaborazione del generale montenegrino Krsto Popović e di ex funzionari del Regno di Nikola I. Questi ultimi, con il patrocinio fascista e del Conte Stefano Mazzolini, daranno vita al “Comitato per la liberazione del Montenegro” che si rifaceva agli ideali dei Zelenaši [54]. Il generale Popović, che aveva vissuto in esilio in Italia, tornerà in patria con l’aiuto dei fascisti e collaborerà con essi sia contro i Četnici (le forze serbe che combatterono in nome del Re di Jugoslavia) che i comunisti di Montenegro [55].

Anche se l’obiettivo di Popović era quello di ricostituire un Montenegro indipendente, egli non mancherà di collaborare con le forze dei Četnici, che avevano trovato rifugio in Montenegro dopo la disfatta in Serbia da parte dei Nazisti (a seguito dell’Operazione Punizione) [56], per la guerra contro i partigiani comunisti. Ma non solo contro questi ultimi, ma anche contro partigiani che combatterono non in nome del comunismo ma solo per un Montenegro indipendente. Questo dal momento che Popović considererà sempre l’eventualità che il Montenegro ritorni nel Regno di Jugoslavia (chiaramente con condizioni diverse rispetto a quelle di Corfù) [57]. Tant’è che il generale collaborerà alla consegna di diversi partigiani, a prescindere dall’indirizzo politico, in mano fascista e a una triste sorte. In ogni caso, la visione di Popović porterà presto a una strisciante rottura all’interno del Comitato, nello specifico con il gruppo di Sekula Drljević, che invece voleva un Montenegro indipendente. Si arriverà così alla nascita di un successivo gruppo di combattenti in Montenegro: nel 1942, dopo il fallimento del Comitato e con il supporto sia militare che economico fascista, verrà istituita la Brigata del Lovćen (Lovćenska Brigada). Un corpo che aveva proprio come scopo principale la lotta contro i comunisti.

Andando avanti, vista la frammentazione politica dei montenegrini, i fascisti cercheranno di guadagnarsi la loro fiducia attraverso la creazione di uno Stato di Montenegro marionetta. Questo il 12 luglio 1941. Ma ciò, chiaramente, significava che il piccolo popolo sarebbe continuato ad esistere sotto il dominio di una forza esterna. E sarà in questo clima che la maggioranza dei montenegrini si mobiliterà per una spontanea ribellione contro l’invasore. Il 13 luglio 1941, il giorno del “Narodni ustanak protiv fašisma” (Popolare rivolta contro il fascismo), una rivolta che traeva la sua forza non tanto dall’ideologia comunista, come fu sostenuto dal regime socialista jugoslavo (questo perché Tito invierà il comunista montenegrino Milovan Đilas per fomentare le folle alla ribellione) ma dal desiderio dei montenegrini di riguadagnarsi la libertà [58]. Per lo più la rivolta iniziava proprio il giorno in cui il Montenegro, nel 1878, fu riconosciuto come Stato indipendente dal Congresso di Berlino (tanto è vero che ai giorni nostri, il 13 luglio è una festa nazionale in Montenegro che celebra entrambi gli avvenimenti).

Gli italiani furono in un primo momento travolti e sconfitti dalla rivolta del 13 luglio e visto questo risultato, Tito, che aveva ben presente gli eventi della Ribellione di Natale del 1918, cercherà in qualche modo di domare questa improvvisa forza montenegrina: infatti egli sostituirà Đilas – che si era dimostrato un sostenitore di un sistema più democratico rispetto a quello stalinista — colla figura di Ivan Milutinović più vicina a Tito e fervido sostenitore dello jugoslavismo socialista e più capace nel guidare la resistenza in Montenegro [59].

Pertanto, il Montenegro sarà la culla della lotta armata contro il nazi-fascismo nella Jugoslavia occupata. E troverà come simbolo proprio un montenegrino: Ljubo Čupić, nato in Argentina da genitori montenegrini, rientrato nel 1930 in Jugoslavia per entrare a far parte dell’illegale partito comunista in suddetta nazione. Anch’egli animerà la lotta comunista in Montenegro e nel 1942 sarà catturato dai Cetnici e fucilato a Nikšić [60]. Egli diverrà, pertanto, il simbolo della resistenza montenegrina sia allora che oggi.

In ogni caso, la situazione montenegrina durante la Seconda Guerra Mondiale sarà anche uno scenario che anticiperà gli orrori degli anni Novanta: infatti in Montenegro si avrà, assieme alla lotta contro il nazi-fascismo, anche una lotta tra i diversi gruppi, che lottavano in nome della propria futura visione del Montenegro. Tant’è che si parlerà di una guerra civile montenegrina dentro la guerra di resistenza all’occupante italo-tedesco [61].

Tale guerra civile stravolgerà anche le forze titine, portando il movimento comunista ad essere sconfitto sia dalle forze fasciste che collaborazioniste e spinto fuori dai confini del Montenegro. Questo perché, secondo le memorie di Đilas, i comunisti avevano fatto il grave errore di accanirsi contro chi si dimostrava, anche minimamente, contrario all’ideologia comunista senza intraprendere un sano confronto volto al compromesso. Portando così maggiori consensi ai Četnići che a loro volta, rifacendosi a quegli storici legami tra montenegrini e serbi qui sopra menzionati, sostenevano che l’identità montenegrina, tanto sventolata dai comunisti in opposizione a quella serba, era solo una finzione e che portava solo fame e guerra in Montenegro [62]. Pertanto, lungo quasi tutto il quinquennio della Seconda Guerra Mondiale, il Montenegro sarà logorato dalla sua guerra civile interna che troverà fine solo con la vittoria delle forze titine, nel 1944.

Il risultato fu però disastroso per il Montenegro a fine guerra: il Paese era stato distrutto in gran parte dalla propria guerra fratricida e aveva lasciato il territorio privo di infrastrutture sia materiali che sociali [63]. Ma data la lotta dei comunisti montenegrini contro il nazi-fascismo (si segnali che il 36% dei partigiani titini erano di origine montenegrina) [64], esso fu premiato con ingenti finanziamenti dal Governo centrale della neocostituita Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia (Federativna Narodna Republika Jugoslavija) per la ricostruzione e il rilancio economico [65]. Inoltre, il Montenegro divenne una delle sei Repubbliche socialiste del neonato Stato, guadagnando diversi territori che non gli erano mai appartenuti (come, ad esempio, la Bocca di Kotor) ed otteneva una rilevante rappresentanza all’interno della Lega dei Comunisti di Jugoslavia (Savez Komunista Jugoslavije) e negli apparati militari. Tant’è che Lenard Cohen (Internazionalista della Simon Fraser University) afferma che “nel caso dei montenegrini, la porzione delle posizioni di punta in ambito militare e politico era molto maggiore rispetto alla loro percentuale nella popolazione jugoslava” [66].

Per quanto concerneva la questione dell’identità montenegrina, nella SFRJ essa non fu mai affrontata approfonditamente. O meglio, essa fu risolta mediante un armistizio imposto alle forze politiche interne per superare la guerra civile e per trovare un equilibrio tra le diverse etnie jugoslave: infatti, dare ai montenegrini una propria Repubblica socialista significava diminuire la forza egemone serba in Jugoslavia — causa del fallimento della prima Jugoslavia secondo i comunisti. Pertanto, si aumentava il peso del Montenegro e delle altre quattro Repubbliche (Croazia, Slovenia, Macedonia e Bosnia ed Erzegovina). Ma si precisi anche che questo riconoscimento non era tanto volto a dare un riconoscimento nazionale ai montenegrini, che non ci fu mai nella SFRJ, ma per rappacificare le forze politiche interne alla Repubblica federata, che si fronteggiavano e si fronteggiano per affermare o no un’identità montenegrina a sé stante (cioè la continua lotta tra i Zelenaši e i Bjelaši) [67]. Questo ai fini di mantenere una Jugoslavia il più stabile possibile, soprattutto quando a partire dalla fine degli anni Sessanta le diverse etnie cominciarono ad agitarsi contro la politica di Belgrado di annichilire le diverse identità e di sostituirle con quella Jugoslava [68]. Si arrivò così alla costituzione del 1963, che dava maggiore autonomia alle diverse Repubbliche federate, e poi, nel 1974, alle due Province di Vojvodina e Kosovo. Eventi che scateneranno gradualmente i malcontenti dei serbi, che lamentano un’eccessiva frammentazione del potere a spese della Repubblica Socialista di Serbia. Questo condurrà così al sopracitato Memorandum SANU dove si denuncerà quel presunto processo di indebolimento della componente serba in Jugoslavia sotto l’idea di “Serbia debole - Jugoslavia forte” (Slaba Srbija - Jaka Jugoslavija) [69].

Anche se in Jugoslavia non vi era l’intenzione di creare, o meglio promuovere, un’identità montenegrina differente da quella serba, è innegabile che la creazione della Repubblica Socialista di Montenegro e la sua conseguente crescita economica abbiano rinvigorito l’identità particolare di questo popolo, nonostante Đilas non osasse a dire che i montenegrini sono solo “differenti serbi dagli altri serbi” [70]. Questo è ancora più vero se si guarda ai dati del censimento del 1948, che vedeva 426,000 individui della Repubblica federata definirsi etnicamente montenegrini [71]. Inoltre, il regime socialista si ritroverà, negli anni di rottura tra Tito e Stalin, a dover addomesticare i montenegrini, che in via generale erano simpatizzanti del regime sovietico e che stavano intraprendendo una narrativa in cui si definivano parte integrante dell’internazionale comunista. Infatti, il riconoscimento della lotta antifascista del Montenegro e il riconoscimento in qualità di Repubblica federata avevano dato via a un rimaneggiamento dell’identità montenegrina in termini marxisti. Come affermato da Banac “il Montenegro, arretrato e impoverito, non era un terreno ideale per l’ideologia Marx-leninista. Tuttavia, questa terra divenne una delle aree più rosse della Jugoslavia. Le politiche egemoniche tra le due guerre dei Governi di Belgrado, che avevano abolito tutte le vestigia della nazionalità ed indipendenza del Montenegro pre-1914, smorzarono i sentimenti pro-serbi del popolo. E sempre di più i montenegrini cominciarono a vedersi come una separata nazione” [72]. Ciò perché i montenegrini erano fieri dei loro storici legami con la Russia e “rinunciare a Stalin […] significa rinunciare a una parte di loro stessi, voltando le loro spalle non solo alla loro ispirazione ma anche ai loro famigliari e consanguinei che combatterono e morirono con il nome di Stalin sulle loro labbra. Molti non riuscirono a fare questo passo” [73]. Pertanto, anche se i comunisti cercarono di risolvere frettolosamente la questione sull’identità montenegrina dandone una forfettaria definizione di serbi un po’ più diversi dagli altri serbi, ciò si dimostrò inutile, perché la prosperità della piccola Repubblica federata e il suo status diedero nuova grinta ai montenegrini nel rivendicare la loro autonomia dalla componente serba (basti pensare che lungo gli anni ‘60 e ‘70 i montenegrini si adoperarono per ricostruire il mausoleo della famiglia reale dei Njegoš sul monte Lovčen, distrutto dai serbi durante il Regno di Jugoslavia, creando frizioni fra le due etnie) [74]. Inoltre, il riconoscimento comunista di una Repubblica Federata di Montenegro portava di conseguenza a un ruolo di estrema importanza: in qualità di Repubblica separata, esso sarebbe stato un elemento di bilanciamento, nonché di contrasto, alla predominanza serba [75].

Come si può evincere, dato questo breve ripercorso storico, il popolo montenegrino nei momenti di maggiore crisi sarà tentato di legarsi ad un altro stato per poter “sopravvivere” al flusso degli eventi. In particolare con la Serbia o con un progetto sovranazionale quale quello della Jugoslavia. Infatti, si segnali che gli anni dell’immediato dopoguerra il Montenegro sarà l’entità federata con il più alto tasso di consensi verso i comunisti e Tito. Tant’è che sarà l’unica Repubblica a rinominare la propria capitale (Podgorica) in Titograd: le altre entità federate rinomineranno città o paesi minori al dittatore socialista [76]. Questo chiaramente perché il Montenegro godrà di una prosperità mai vista fino alla costituzione della SFRJ; nonostante la vicinanza ideologica montenegrina al COMINFORM.

In questo senso, si può concordare con Elizabeth Roberts che “i montenegrini non sono un semplice gruppo di serbi dalle montagne e nemmeno sono “puri” montenegrini. Le identità non sono né primordiali né scolpite sulle rocce, come i nazionalisti vorrebbero farci credere. Invece esse sono, con dei limiti, fluide ed opportuniste; esse cambiano lungo il tempo. Inoltre, l’identità non è necessariamente basata solo su criteri etnici: chiaramente la relazione con lo Stato e la società civile sono altrettanto importanti, ma quando lo Stato è debole e la società civile poco sviluppata, l’appartenenza etnica diventa un mezzo di unione solidale del gruppo destinato a giocare un grande ruolo” [77].

Pertanto, la questione dell’identità montenegrina è qualcosa di fluido e muta al mutare delle condizioni materiali in cui quel popolo si ritrova in un dato momento storico. Questo soprattutto dal momento che più del 26% della popolazione del Montenegro è composta da altre minoranze che non appartengono alla religione Ortodossa: si pensi solamente alla forte presenza di slavi musulmani (Bošniaki) e di albanesi, sia musulmani che cattolici. Una parte della popolazione che si è dimostrata decisiva, nel 2006, al voto per il referendum per l’indipendenza del Montenegro dalla Serbia.

A tal proposito è illuminante questa testimonianza: un uomo di poco più di settant’anni, ex ufficiale dell’esercito jugoslavo, di fede musulmana e con cittadinanza montenegrina alla domanda “come si definisce lei?” rispose: “il mio albero genealogico risale a più di quattrocento anni fa ed è sempre stato in Montenegro, ma io sono bosgnacco perché la mia famiglia è musulmana, ma allo stesso tempo io rimango fedele al giuramento che feci alla Jugoslavia socialista in caso di guerra. Questo anche in nome di mio padre ateo che ha combattuto in qualità di partigiano nelle forze titine durante la rivolta antifascista elogiando la grande Rivoluzione russa. Pertanto, non posso non amare questa terra dove mio padre ha combattuto e versato il suo sangue per la libertà, e sempre questa terra è stata la massima espressione dell’internazionale comunista e io non posso non guardare con ammirazione l’opera di Lenin e Stalin per il proletariato. E data questa sua colorata peculiarità e la fine della SFRJ non posso non sostenere la sua indipendenza”.

È chiaro, pertanto, che ogni tipologia di narrativa sull’identità montenegrina è sterile se si parte da una base di purezza dell’etnia o da una che si rifà “ai migliori serbi di Serbia”. Bisogna piuttosto avere l’onestà intellettuale di andare oltre ai preconcetti nazionalisti nati durante il XIX secolo e di vedere il Montenegro, come affermato da Elizabeth Roberts, come un crocevia di etnie, culture, guerre e lingue. Dove, data la particolare composizione territoriale del Paese, molti hanno trovato un terreno fertile dove mischiarsi e ricercare una propria sopravvivenza. Ogni tipo di narrativa, sia dell’una parte che dell’altra, risponde solamente ad interesse privati o di altro genere.

Note

[1Si veda: Banti A.M., 2009, “L’età contemporanea. Dalla Grande Guerra a oggi”, Bari, Editori Laterza.

[2Si veda: Renouvin P., traduzione di Barié O., 1961, “Storia della politica mondiale. Diretta da Pierre Renouvin. Il secolo XIX 1871-1914. L’Europa al vertice della potenza”, Firenze, Vallecchi Editore.

[3Si veda: Andrijašević Z. M., Rastoder Š., 2006, “Istorija Crne Gore Od najstarijih vremena do 2003”, Podgorica, Centar za iseljenike (CICG).

[4Duce A., Ibidem, pp. 167-168.

[5Milosavljević O., 2010, “Dva razgovara sa Latinkom Perović”, Belgrado, Helinski odbor za ljudska prava u Srbiji, pp. 206-213.

[6Filippi V., 2016, “STORIA: Il memorandum dell’Accademia serba delle scienze e delle arti”, East Journal, Consultabile: https://www.eastjournal.net/archives/77581.

[7Si veda: Pištan Č., 2014, “Dalla balcanizzazione alla “jugonostalgija”: dissoluzione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia”, Istituzioni del federalismo, Rivista di studi giuridici e politici, Vol. 35, No. 4. Consultabile: https://www.researchgate.net/profile/Carna-Pistan/publication/349427788_Dalla_balcanizzazione_alla_jugonostalgija_dissoluzione_della_Repubblica_Socialista_Federale_di_Jugoslavia/links/602f8d50a6fdcc37a837b0a9/Dalla-balcanizzazione-alla-jugonostalgija-dissoluzione-della-Repubblica-Socialista-Federale-di-Jugoslavia.pdf.

[8Rastoder Š., “A short review of the history of Montenegro”, in Bieber F., 2003, “Montenegro in Transition: Problems of identity and statehood”, Germany, Nomos Verlagsgesellschaft Baden-Baden, pp. 107-138.

[9Si veda: Roganović S., Špadijer M., 2004, “Diplomatska poslanstva u kraljevini i knjazevini Crnoj Gori”, Podgorica.

[10Andrijašević Z. M., Rastoder Š., Ibidem, pp. 481-484.

[11Si veda: Morrison K., 2018, “Nationalism, Identity and Statehood in Post-Yugoslav Montenegro”, London, Bloosburry, pp 29-40.

[12Si veda: Čegorović N., 1993, “Montenegrin identity: past, present and future”, Journal of Area Studies, Vol. 1, No. 3, pp. 129-136, Consultabile: https://doi.org/10.1080/02613539308455693.

[13De Michelis G., 2019, “Guerra in Jugoslavia: l’indipendenza slovena. Guerra in Jugoslavia: l’indipendenza slovena”, Le Sfide, Vol. 6, pp. 170-181, Consultabile: http://digital.casalini.it/10.1400/273701.

[14Miller L. B., 1994, “The Clinton years: reinventing US foreign policy?”, International Affairs, Vol. 70, No. 4, p. 628, Consultabile: https://doi.org/10.2307/2624550.

[15Si veda: Sobel R., 1998, “Trends: United States Intervention in Bosnia”, The Public Opinion Quarterly, Vol. 62, No. 2, pp. 250-278, Consultabile: https://www.jstor.org/stable/2749625.

[16Si veda: Meneguzzi Rostagni C., 2013, “Politica di potenza e cooperazione. L’organizzazione internazionale dal Congresso di Vienna alla globalizzazione”, Lavis (TN), CEDAM.

[17Si veda: Webber M., 2009, “The Kosovo War: A Recapitulation”, International Affairs, Vol. 85, No. 3, Consultabile: https://www.jstor.org/stable/27695024.

[18Si veda: Caccamo D., 1999, “Kosovo: vincitori e vinti”, Rivista di Studi Politici Internazionali, Vol. 66, No. 3, pp. 361-371, Consultabile: https://www.jstor.org/stable/42738216.

[19Morrison K., 2009, “Montenegro. A Modern History”, London, I.B. Tauris, p. 76.

[20Andrijašević Z. M., Rastoder Š., Ibidem, pp. 299-340.

[21Matković S., 1992, “Izvor velikosrpske agresije-rasprave, dokumenti, kartografski prikazi (Osvrt na dio Velika Srbija od 1844. do 1990/91. godine«autora Redovana Pavića), August Cesarec», Školska knjiga, Zagreb, Radovi: Radovi Zavoda za hrvatsku povijest Filozofskoga fakulteta Sveučilišta u Zagrebu, Vol. 25 No. 1, 269-274, Consultabile: file:///Users/dinosabovic/Downloads/RZHP_25_21_MATKOVIC_269_274.pdf.

[22Si veda: Morus C., 2007, “The SANU Memorandum: Intellectual Authority and the Constitution of an Exclusive Serbian “People””, Communication and Critical/Cultural Studies, Vol. 4, No. 2, pp. 142–165. Consultabile: https://doi.org/10.1080/14791420701296513.

[23Si veda: Giordano G., 2004, “Storia della Politica internazionale 1870-2001”, Milano, Franco Angeli.

[24Morrison K., “Montenegro. A Modern History”, p. 51.

[25Andrijašević Z. M., Rastoder Š., Ibidem.

[26Ognjenović G., Jozelić J., 2014, “Politicization of Religion, the Power of State, Nation, and Faith: The Case of Former Yugoslavia and its Successor State”, New York, Palgrave Macmillan, pp. 151-156.

[27Ibidem.

[28Pavlović S., “Who are Montenegrins? Statehood, identity, and civic society”, in Bieber F., 2003, “Montenegro in Transition: Problems of identity and statehood”, Germany, Nomos Verlagsgesellschaft Baden-Baden, pp. 84-93.

[29Ognjenović G., Jozelić J., Ibidem, pp. 151-156.

[30Ibidem.

[31Ibidem.

[32Si veda: Stevenson F. S., 1914, “A history of Montenegro”, London, Jarrold & Sons, Warwick Lane.

[33Ibidem.

[34Bieber F., Ibidem, p. 125.

[35Andrijašević Z. M., Rastoder Š., Ibidem, pp. 245-250.

[36Pavlović S., “Who are Montenegrins? Statehood, identity, and civic society”, ibidem, p. 84.

[37Ivi, pp. 87-88.

[38Morrison K., “Nationalism, Identity and Statehood in Post-Yugoslav Montenegro”, p. 84.

[39“I documenti diplomatici italiani. Seconda serie: 1870-1896. Volume VIII (1° gennaio - 31 luglio 1877)”, 1984, Roma, Istituto poligrafico e zecca dello stato, p. 23, Consultabile: http://www.farnesina.ipzs.it/series/SECONDA%20SERIE/volumi/VOLUME%20VIII.

[40Roganović S., Špadijer M., Ibidem, pp. 4-5.

[41Andrijašević Z. M., Rastoder Š., Ibidem, pp. 299-336.

[42Andrijašević Z. M., Rastoder Š., Ibidem, pp. 299-336.

[43Bieber F., Ibidem, p. 125.

[44Andrijašević Z. M., Rastoder Š., Ibidem, p. 263.

[45Ivi, p. 275.

[46“I documenti diplomatici italiani. Quarta serie: 1908-1914. Volume XII (28 giugno 1914 - 2 agosto 1914)”, 1964, Roma, Istituto poligrafico e zecca dello stato, p. 298, Consultabile: http://www.farnesina.ipzs.it/series/QUARTA%20SERIE/volumi/VOLUME%20XII.

[47Andrijašević Z. M., Rastoder Š., Ibidem, p. 285.

[48Ivi, p. 303.

[49Ibidem.

[50Ivi, pp. 299-336.

[51Ibidem.

[52Morrison K., “Nationalism, Identity and Statehood in Post-Yugoslav Montenegro”, p. 7.

[53Morrison K., “Montenegro. A Modern History”, p. 43.

[54Ivi, p. 52.

[55Goddi F., 2015, “L’occupazione italiana in Montenegro. Forme di guerriglia e dinamiche politiche del collaborazionismo četnico (1941-1943)”, in Qualestoria. Rivista di storia contemporanea, N. 2, Trieste, EUT Edizioni Università di Trieste, pp. 65-80. Consultabile: http://hdl.handle.net/10077/21222.

[56Morrison K., “Montenegro. A Modern History”, p. 51.

[57Ivi, p. 52.

[58Ivi, p. 53.

[59Roberts E., 2007, “Realm of the Black Mountain. A History of Montenegro”, Londra, C. Hurts & Company, pp. 358-360.

[60Mlađenović N., 2018, “Montenegro’s Mediatization of Politics: Election Campaign Coverage on RTV Vijesti and RTCG”, Medijska istraživanja: znanstveno-stručni časopis za novinarstvo i medije, Vol. 24, No. 1, pp. 33-50, Consultabile: https://hrcak.srce.hr/index.php?show=clanak&id_clanak_jezik=300870.

[61Morrison K., “Montenegro. A Modern History”, pp. 50-59.

[62Ibidem.

[63Ivi, p. 66.

[64Roberts E., Ibidem, p. 392.

[65Si veda: Radoje Pajović, Crna Gora Kroz Istoriju, Obod, Cetinje, 2005.

[66Cohen L. J., 1984, “The Socialist Pyramid: Elites and Power in Yugoslavia”, Londra, Tri-Service Press, p. 129.

[67Morrison K., “Montenegro. A Modern History”, pp. 66-67.

[68Si veda: Guzina D., 2003, “Studies in the Social History of Destruction: The Case of Yugoslavia || Socialist Serbia’s Narratives: From Yugoslavia to a Greater Serbia”, International Journal of Politics, Culture, and Society, Vol. 17, No. 1, pp. 91–111. Consultabile: https://www.jstor.org/stable/20020199.

[69Ibidem.

[70Morrison K., “Montenegro. A Modern History”, p. 67.

[71Ibidem.

[72Banac I., 1988, “With Stalin Against Tito. Cominformist Splits in Yugoslav Communism”, Londra, Cornell University Press, p. 164.

[73Ivi, p. 151.

[74Morrison K., “Montenegro. A Modern History”, pp. 72-73.

[75Roberts E., Ibidem, p. 401.

[76Morrison K., “Montenegro. A Modern History”, p. 68.

[77Roberts E., Ibidem, pp. 3-4.

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