“Faḉa o Brasil grande outra vez”, fare il Brasile grande di nuovo, questo lo slogan utilizzato dal neo-eletto Presidente della Repubblica Federale del Brasile Jair Bolsonaro, leader del partito nazional-conservatore di estrema destra “Partido Social Liberal”. L’ex capitano dell’esercito brasiliano ha vinto la contesa al secondo turno delle elezioni presidenziali ottenendo il 55% dei consensi degli elettori, contro il 45% del suo rivale diretto Haddad, del Partito dei Lavoratori.
Ottiene la vittoria proponendosi come alternativa radicale e ordinatrice ai gravi problemi che affliggono il Brasile, grazie ad una forte propaganda condita anche da fake news (spesso riguardanti i suoi concorrenti), e dalla vincente scelta di utilizzo dei social media, preferiti ai media classici. L’obiettivo che il neo-presidente promette di raggiungere è sanare le malattie che da anni infettano il corpo dello stato carioca, con una ricetta già cucita sulla bandiera verde-oro: “Ordem e Progresso”.
“Ordine”, per risolvere il problema corruzione: la “operaḉao lava Jato” (operazione autolavaggio), che ha visto coinvolto il Partito dei Lavoratori, reo di aver gonfiato i contratti degli appalti per la costruzione delle infrastrutture per l’estrazione del petrolio favorendo la Petrobras e le aziende che fanno parte della Btp, in cambio di tangenti e finanziamenti illeciti, ha portato l’elettorato brasiliano ad una profonda insoddisfazione verso la propria classe politica (solo il 13% di essi si è infatti dichiarato soddisfatto, come svela un’intervista condotta nel 2017). Per risolvere il problema sicurezza, in un paese che l’anno precedente ha registrato più di 63.000 omicidi, circa 175 al giorno, oltre a 60.000 stupri e 80.000 sparizioni (fonte ISPI). Bolsonaro promette il pugno di ferro contro la criminalità e l’abbassamento dell’età penale da 18 a 16 anni.
“Progresso”, per un ritorno ad un’economia in crescita; nonostante dei fondamentali macroeconomici buoni, come un basso tasso d’inflazione, una buona bilancia dei pagamenti esteri e un tasso di crescita positivo del PIL reale, +1,4%, rispetto alla recessione del 2015 e 2016. Il vero problema è però la finanza pubblica. Bolsonaro promette di sanarla con tagli alla spesa pubblica e privatizzazioni di ampi settori economici.
I problemi sono ora i seguenti: il primo di Bolsonaro, che ora dovrà dimostrare nell’arco del suo mandato di rispondere alle grandi aspettative create; il secondo è invece dell’altra metà dell’elettorato Brasiliano e del mondo intero; il timore è uno: che come tanti leader estremisti (nel passato e nel presente) che in origine sono stati eletti in base alla promessa di riscattare la credibilità e l’autostima delle loro nazioni, possa egli sottoporre il Brasile ai suoi capricci autocratici. L’elezione del Trump brasiliano ha già provocato zizzania nelle strade, ma purtroppo i pericoli che si prospettano sono peggiori: l’indebolimento dei diritti delle minoranze, minacciati dalle dichiarazioni conservatrici del neo-presidente, che pongono l’accento sulla famiglia tradizionale ed elogiano il patriarcato oltre ad asserzioni contro donne, neri, omosessuali e immigrati. Ciò porta alla messa in discussione della democrazia nel paese. L’attuale vice-presidente Mourao, inoltre, ha affermato che qualora il sistema giudiziario non fosse stato in grado di mettere ordine nel caos politico del paese, questo sarebbe stato imposto dall’esercito attraverso un intervento militare.
Oltre al rischio di una nuova dittatura, il Brasile deve anche pagare il prezzo dell’imbarbarimento del dibattito politico, colmo di messaggi estremisti contro le minoranze, di scarsa tolleranza verso le deviazioni morali e di promessa di mano dura contro i criminali; linguaggio che ha permesso la conquista del ceto medio alto della borghesia da parte del Partido Social Liberal, ma che non promette niente di buono per il futuro dell’idea di tolleranza.
Il nuovo Presidente brasiliano, inoltre, è solo uno dei tanti leader politici che in questo periodo, con sempre più fervore, stanno sgretolando le idee di cooperazione tra gli stati nel sistema internazionale. Il partito di Bolsonaro con la sua politica estremista è infatti solo uno dei movimenti radicali e populisti che stanno infiammando sullo scacchiere internazionale. Come lui possiamo riscontrare Trump negli USA, Duterte nelle Filippine e, da più vicino, in Europa, moti nazionalisti nei Paesi del Nord come Germania, Paesi Bassi, Finlandia, Austria, tipicamente di destra, costituiti come reazione alle migrazioni di massa incontrollate, specialmente islamiche, alimentate dalla “paura dell’altro”, e partiti come Front National e Lega, guidati rispettivamente da Marine Le Pen e Matteo Salvini, euroscettici e anti-elitari di destra, fomentati dalle masse irritate da una prolungata crisi economica e una disoccupazione preoccupante.
La domanda che ci si pone ora è come la propagazione di idee populiste, di cui Bolsonaro in Brasile si fa protagonista, possa impattare sulle future elezioni del Parlamento Europeo del 23 maggio. In base ai risultati, il Consiglio Europeo sceglierà il candidato per la presidenza della Commissione Europea, il quale dovrà poi ottenere la fiducia del Parlamento stesso. Vista la situazione di forte crisi che L’Unione Europea sta attraversando è fondamentale che a guidare la Commissione non sia un partito sovranista ed euroscettico.
Il rischio infatti, è che i movimenti nazionalisti dei vari stati, accentuati ora fortemente in quest’epoca di competizione, conflitto e penuria (Bolsonaro ne è un esempio lampante) prendano sempre più piede nelle strade europee. Questi partiti hanno un’idea comune: la ricostruzione del passato e uno spirito di revisione, che porta ad una richiesta di autonomia ed alla rottura delle aggregazioni sovranazionali esistenti, chiusura delle frontiere e protezionismo nei mercati, indebolendo la capacità di compravendita degli stati. Nonostante questi movimenti fomentino autonomismi e separatismi, nessuno sembra realmente intenzionato a perseguire l’obiettivo politico di uscita dall’UE. Questi partiti infatti sono sovranisti ma non indipendentisti, come nel caso del Regno Unito (che sta mostrando ora il fallimento della Brexit); questo perché i loro leader muovono accuse demagogiche beneficiando però in silenzio di ciò che serve, ergendosi in difesa dell’identità nazionale, ma senza rinunciare ai vantaggi dell’integrazione economica e monetaria, o reclamando una maggiore libertà di spesa senza rinunciare alla moneta comune. Se l’Europa dovesse essere governata da questi partiti dal carattere negativo, privi di slanci propositivi, il suo probabile futuro sarebbe quello di diventare vuota, determinandone l’esclusione dal tavolo delle grandi potenze mondiali, privata della forza che un’unione effettiva sul piano politico ed economico porterebbe.
Ora più che mai dunque servono partiti che diano vita ad una vera Europa politica e sociale sul piano effettivo e non solo su quello monetario, le cui istituzioni garantiscano un equilibrio più equo fra politiche monetarie e di bilancio, una maggiore sollecitazione dell’attività economica, varie riforme strutturali della competitività ed una coesione sociale rafforzata. Molti personaggi ed esponenti politici dovrebbero guardare l’esempio del Presidente francese Emmanuel Macron, che ha sfidato apertamente i nazionalisti del proprio Paese. Egli infatti non va lasciato solo. È necessario che le forze europeiste si facciano sentire, dichiarando senza indugi ed apertamente il loro appoggio all’UE e il loro impegno a migliorarla strutturalmente.
La sopravvivenza dell’Euro passa attraverso un governo economico europeo ed un bilancio europeo federale di crescita. Il federalismo sarà capace di evitare il fallimento dell’Euro e le sue conseguenze disastrose sulla vita di tutta l’Unione europea. Esso aprirà agli europei la strada verso un’Europa più giusta, solidale e democratica in grado di garantire e ritagliarsi un ruolo centrale nel mondo. Obiettivi come la pace, l’unità e la prosperità in Europa possono essere realizzati solo tramite una cessione di una parte della sovranità da parte di Stati troppo piccoli per pensare di poter dialogare al tavolo delle grandi potenze, per realizzare un’unione federale che risolverebbe i problemi di un’Europa in decadenza, contrariamente all’inaridimento che porterebbero nazionalisti e populisti come Jair Bolsonaro in Brasile.
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