Tra questi, vorrei qui prendere in esame il fenomeno della vendita della cittadinanza (citizenship for sale). Molti Paesi, piccoli e grandi, vendono la cittadinanza a chi la può pagare. Oltre alle repubbliche dei Caraibi, si trova, nelle pubblicità su Internet, Usa, Canada, Regno Unito, Russia, e per quanto riguarda l’Ue: Cipro, Malta, Bulgaria, Portogallo, Estonia, Irlanda, Italia, Romania, Lituania, Grecia, Spagna, Croazia, Lussemburgo, Austria. I costi del “Golden Visa” variano molto da Paese a Paese, in alcuni casi si richiedono condizioni, come la residenza, un certo ammontare in investimenti privati o nel debito pubblico, infine si offrono generosi sconti sulle tasse.
La questione è stata dibattuta nel Parlamento europeo, che nel 2014 ha approvato una risoluzione in cui si afferma “La cittadinanza dell’Ue non deve essere messa in vendita a qualsiasi prezzo”. Inoltre, uno studio accurato (Eprs, October 2018) mette in guardia i Paesi membri contro questa pratica che può provocare effetti negativi, come l’instabilità finanziaria, una competizione dannosa sulla fiscalità, un eccesso d’investimenti in beni immobili, l’infiltrazione della criminalità, la corruzione politica e infine, la più dannosa conseguenza, la perdita di fiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche. Tuttavia, nonostante questi avvertimenti il mercato della cittadinanza prospera.
La vendita della cittadinanza nazionale è un effetto collaterale della globalizzazione finanziaria iniziata negli anni Ottanta. È un fenomeno parallelo a quello della concorrenza fiscale tra Paesi, che hanno cominciato a ridurre le aliquote sulle imprese per attirare investimenti esteri. Si tratta di una pratica suicida, specialmente per i Paesi europei con costosi programmi di welfare, che gravano sempre più sulla tassazione dei redditi immobili, come il lavoro e le abitazioni, e sempre meno su quelli mobili, come i capitali delle imprese e degli individui che possono trasferire la loro ricchezza in posti sicuri. La sovranità nazionale è erosa da un cancro interno, non da minacce esterne, perché è la stessa classe politica nazionale che si affanna a raschiare il fondo del barile, mettendo sul mercato i gioielli di famiglia.
La cittadinanza è un bene pubblico prezioso; è la sostanza stessa di una comunità politica. Nella storia dell’umanità, il processo che si definisce civiltà è iniziato quando l’individuo ha messo in discussione la sua appartenenza alla comunità politica, com’è avvenuto, in forme pre-moderne, nella polis greca e nell’impero romano. Nell’età contemporanea, il progresso civile ha assunto una forma definita con la rivoluzione francese quando, dopo aver dichiarato “i diritti dell’uomo e del cittadino”, una moltitudine di sudditi ha preteso la dignità di cittadino, un nuovo status giuridico, all’interno del quale privilegi e discriminazioni sono aboliti. “Liberté, égalité, fraternité”, ecco i valori che identificano il popolo post-rivoluzionario.
La vendita della cittadinanza di un Paese membro dell’Ue è un doppio misfatto. È un attentato alla democrazia, perché si vende a persone facoltose, interessate principalmente allo sfruttamento del mercato interno europeo il diritto di voto nazionale ed europeo. Infatti, l’art. 3 del Trattato di Lisbona afferma: «È cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno stato membro». Inoltre, si sottrae all’Unione il potere di regolare i transiti alle frontiere esterne dell’Unione. L’art. 77 del Tfu afferma che l’Unione deve: «garantire il controllo delle persone e la sorveglianza efficace dell’attraversamento delle frontiere esterne; e instaurare progressivamente un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne». Come si può giustificare che si conceda la cittadinanza europea a persone ricche e, per contro, la si neghi a individui poveri in cerca di lavoro e di una nuova patria? I primi diventano cittadini dell’Ue, i secondi sudditi. Inoltre, la distinzione tra rifugiati e migranti economici è destinata a offuscarsi nella misura in cui s’ingigantisce il fenomeno dei “migranti ecologici”, in fuga dalle loro terre a causa del riscaldamento climatico.
La risposta a questi problemi non è semplice e non può essere univoca. Mi limito a suggerire due riforme possibili. La prima riforma consiste nell’attribuzione all’Unione, come indicato dall’art. 77, di un chiaro potere concorrente nell’attribuzione della cittadinanza europea a persone terze, provenienti da paesi non membri. Se si attribuisce il diritto di voto europeo a una persona, la motivazione principale deve essere di natura politica, perché il Parlamento europeo partecipa attivamente alla definizione delle politiche dell’Unione ed è eletto da un popolo plurinazionale di cittadini europei, non da una moltitudine. L’attribuzione della cittadinanza nazionale ed europea deve dunque essere approvata dalla Commissione europea e la vendita della cittadinanza nazionale deve essere vietata.
Sulla base del principio per cui l’attraversamento delle frontiere dell’Unione implica un’esplicita decisione europea, si dovrebbe affidare all’Ue la possibilità di concedere la “cittadinanza di residenza” (Ius domicilii) a chi ne fa legittima richiesta. Si potrebbe così avviare a soluzione l’annosa controversia sulla Convenzione di Dublino e la politica europea dell’immigrazione. L’alternativa alla tratta dei migranti è la creazione di canali legittimi per l’emigrazione, come l’Ue sta realizzando con l’African Union (Joint Communiqué, 29/2/2020). La cittadinanza di residenza consentirebbe all’immigrato di integrarsi in una comunità locale, scelta nel momento di cui presenta la sua domanda, ad esempio all’Unione africana. Naturalmente, l’Ue deve programmare insieme ai governi nazionali e ai governi locali europei (città, province, regioni) quanti emigrati accogliere, perché esistono diverse sensibilità politiche locali e nazionali che occorre considerare. Naturalmente, chi usufruisce della cittadinanza di residenza deve rispettare i diritti e doveri sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali e potrà votare solo al livello locale, perché il voto nazionale ed europeo dipenderà dall’attribuzione della cittadinanza nazionale.
La seconda proposta riguarda la creazione di un servizio civile europeo obbligatorio, articolato in ciascun Paese dell’Unione. La politica è oggi dominata dall’incertezza: alcune decisioni sono prese al livello nazionale, altre al livello europeo e altre ancora al livello mondiale. In alcuni paesi dell’Unione, i cittadini sostengono, a volte rabbiosamente, richieste impossibili da soddisfare, oppure diventano preda di partiti populisti o illiberali, guidati da demiurghi che promettono un radioso avvenire. La democrazia è in pericolo. Uno dei rimedi possibili è ricordare ai giovani, che raggiungono l’età del voto, che non esistono solo diritti, ma anche doveri, perché una comunità politica si dissolve se svanisce il senso di appartenenza, che non consiste solo nel chiedere, ma anche nel dare. Un servizio civile europeo consentirebbe ai giovani di attivarsi in comunità (a tutti i livelli, dalla città al mondo) per la difesa della salute, i servizi sociali, la protezione dell’ambiente, la sicurezza collettiva e l’aiuto internazionale. I beni pubblici non sono un dono della natura; sono il frutto di un’azione umana disinteressata, deliberatamente rivolta al bene di altri, come si è potuto sperimentare durante la pandemia, grazie alla generosa opera del personale sanitario.
Queste due proposte dovrebbero essere prese in considerazione dalla prossima Conferenza sul futuro dell’Europa.
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