Il mondo europeista è in festa per la vittoria di Macron e non potrebbe essere altrimenti. Il neo-eletto Presidente della Repubblica si è fatto ovunque accompagnare dall’Inno alla gioia e ha condotto una campagna elettorale di stampo fortemente pro-europeo, battendo nettamente al ballottaggio il partito sovranista capitanato da Marine Le Pen.
È tuttavia abbastanza per identificare in Macron una sorta di “messia” dell’europeismo?
Senza andare a rispolverare i miti di un passato remoto, anche Hollande nel 2012 aveva puntato sul simbolismo europeista, iniziando la sua campagna elettorale nel paese di cui fu sindaco Jacques Delors, e il 16 maggio 2013 lanciò un piano biennale per raggiungere l’unione politica entro il 2015.
Inutile ricordare quanto tutto ciò sia rimasto irrealizzato. Indirizziamo quindi la riflessione più su quanto accaduto che sulla bontà di alcune intenzioni tutte ancora da verificare.
Le elezioni francesi hanno rappresentato davvero la profonda crisi dei “partiti tradizionali”? Nelle numerose analisi condotte scopriamo che socialisti e conservatori, insieme, hanno a malapena raggiunto il 25% delle preferenze, soverchiati da voti definiti “anti-sistema” perché dettati da una qualche forma di protesta o di paura. Se Hamon e Fillon risultano senz’altro i grandi sconfitti, Mélenchon e Le Pen sembrerebbero uscire molto rafforzati da questi esiti, in grado di farsi catalizzatori del voto radicale e di protesta. Eppure è evidente che il Front National, per quanto ripresentato sotto nuove vesti, è un partito - “familista o corporativista” ma pur sempre un partito - attivo dal 1973; e in generale, tutte le nuove formazioni, in preparazione delle elezioni di Giugno, stanno tentando di darsi una riorganizzazione territoriale tipicamente partitica. Parliamoci chiaro, l’unico vero sconfitto è il partito socialista che probabilmente, incapace di uscire dalle catene del secolo scorso, sarà costretto a vedere una diaspora dei suoi membri verso il movimento En Marche. Come negli anni ’70, stiamo assistendo a un serio cambiamento della politica, ma dobbiamo ammettere che siamo ancora lontani dalla costruzione di un modello di democrazia rappresentativa alternativo a quello che già conosciamo e vediamo oggi in crisi.
Possiamo però affermare che i partiti considerati “tradizionali” sono incapaci di superare il proprio ruolo di mera “macchina elettorale”, avendo perso la capacità di rappresentare le nuove contraddizioni della società. C’è chi parla della possibilità di vedere ricostituito su queste basi un nuovo collante socialista, senza il funambolismo del vecchio Mitterand, ma sulla concreta proposta di un riformismo nazionale ed europeo. Intanto, ciò che è accaduto in Francia è il riflesso di quanto già sperimentato in Grecia, in Spagna e, parzialmente, in Italia: o le compagini politiche sviluppano le loro radici e si adattano ad una realtà più complessa o sono superate da nuovi attori organizzati.
Rimangono però dei segnali effettivamente pericolosi.
Non possiamo ignorare che circa il 50% dell’elettorato francese ha espresso un sentimento di malessere sfociato spesso in visioni fortemente nazionaliste. Questo primo dato rende evidente che lo scontro politico non si svolge più intorno alle categorie tradizionali di “borghesi e proletari” o “conservatori e progressisti”, ma tra ceti urbani integrati - Macron arriva quasi al 90% a Parigi - e periferie che vivono il dramma di una seria dissociazione della società.
Il secondo dato ci porta a vedere che l’unico riuscito a contrastare efficacemente la spinta degli estremismi radicali è stato proprio Macron, portatore di una posizione di rottura: a chi si schierava radicalmente contro l’Europa, ha risposto in modo radicalmente pro-europeo.
É insomma quasi pleonastico sottolineare quanto la vera battaglia politica si stia combattendo tra pro-Europa ed anti-Europa; come già profeticamente immaginato da Spinelli e Rossi nel Manifesto di Ventotene. Sia nei termini valoriali che nelle istanze sociali.
Fino ad oggi le forze europeiste hanno vacillato, ancora legate a logiche politiche troppo prudenti e reticenti ad unirsi, superando divisioni ormai svuotate di contenuto politico. I partiti sovranisti hanno invece - paradossalmente ma non troppo - sfruttato con molta più decisione il nuovo spazio politico, coordinandosi ed alleandosi con i propri corrispettivi del continente. Le ultime elezioni francesi, ma in generale le tornate elettorali del 2016-17, segnano un clivage decisivo: la battaglia è iniziata, che piaccia o no. Le forze politiche europeiste sono chiamate a battersi, che si sentano pronte o meno.
Se da una parte i sovranisti hanno facilità nell’individuare contro chi lottare e nel definire un obbiettivo - il ritorno ai bei vecchi tempi delle sovranità nazionali -, gli europeisti sono ancora rallentati da un equivoco chiave. Se il nemico politico è il nazionalismo, non è chiara la proposta fattiva o che cosa voglia dire essere pro-Europa.
Limitarsi a suonare l’inno alla gioia e lanciare generici slogan, sarebbe una risposta quantomeno semplicistica per milioni di persone che vivono nell’incertezza del proprio avvenire. La popolazione europea ha vissuto un intero decennio di crisi, e chiede risposte, non slogan. Il rischio concreto è quello di rovinare, nell’immaginario collettivo, il vero significato del sogno europeo. C’è bisogno di tangibili passi avanti in questa direzione o la battaglia sarà persa e ne saremo tutti responsabili davanti alla storia.
L’Europa non è più soltanto quella delle istituzioni di Bruxelles, del Consiglio o della BCE. È diventata un tema politico su cui battersi per decidere come vorremmo organizzata la società del domani.
Le risposte non possono essere temporanee o palliative, si deve iniziare a parlare del percorso per uscire dall’impasse. I temi a cui i cittadini chiedono risposte immediate con il loro voto non mancano: dalla domanda di sicurezza civile e sociale ai flussi migratori, dalla politica estera al rilancio di un piano di sviluppo economico sostenibile continentale. Da parte del Parlamento europeo (rapporti Bresso-Brok, Böge-Beres e Verhofstadt), dalla Commissione e da alcuni governi le proposte non mancano. Sembra persino aperta un’ipotesi di un sistema a due velocità o a cerchi concentrici in funzione di un eventuale momento costituzionale nel 2019. Nel frattempo quanta e quale sovranità dovrà essere condivisa sul piano sovranazionale per porre un freno alla crisi dell’Unione è un argomento ancora oscuro. Certo nel programma di Macron alcuni di questi aspetti compaiono, come la creazione di un bilancio per la zona euro, ma quale sarà il progetto per le riforme istituzionali entro cui inserire queste risposte emergenziali, non è definito.
Le elezioni francesi possono essere allora considerate uno scampato pericolo, ma devono segnare un nuovo inizio. Sconfiggere Marine Le Pen è stata una premessa necessaria, ma la vera battaglia inizia solo adesso e non può limitarsi alla Francia. Come ricordato da Enrico Letta, il motore franco-tedesco poteva funzionare ai tempi di Mitterand e Kohl, quando la potenza dei due paesi era equilibrata. La Francia non può rilanciare da sola l’Unione, ha bisogno del sostegno dell’Italia, forse anche della Spagna, e delle istituzioni europee per portare la Germania su posizioni politiche progressiste in senso istituzionale.
Inoltre non possiamo più chiedere ai cittadini di soffrire per il mantenimento dello status quo, è tempo di guardare al futuro sovranazionale; è lì che ha ancora senso parlare di “destra” e “sinistra”.
Altrimenti l’elezione di Macron potrebbe rappresentare l’ultimo colpo di reni, iniziato con l’elezione di Van Der Bellen in Austria, proseguito con l’entusiasmo delle numerose manifestazioni nelle piazze e che finirà con il tramonto della civiltà europea. Dobbiamo trovare un obiettivo alla nostra “comunità di destino”: diamo un finale al percorso per gli Stati Uniti d’Europa.
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