L’immigrazione è l’emergenza più seria cui l’UE deve far fronte non solo perché rischia di sopraffare le fragili strutture di accoglienza per i richiedenti asilo, ma anche perché mette in pericolo la coesione interna dell’Unione.
Schengen, come molti altri progressi sulla via dell’unità europea, è stata una mezza misura. Ha smantellato i confini fra gli Stati nazionali e abbattuto le barriere alla libertà di movimento delle persone, ma non ha creato un comune confine esterno né una comune guardia di frontiera europea. In altre parole, ha perseguito solo un’integrazione negativa. Un’integrazione positiva richiederebbe più di Frontex, l’attuale agenzia di frontiera: più competenze, più personale, più mezzi e un servizio di intelligence comune. Ma concentrarsi sui controlli di frontiera, anche se necessario, non è sufficiente. Credere che questa sia l’unica disposizione per fronteggiare la crisi dei rifugiati significherebbe arrendersi alle ossessioni della sicurezza e alla concezione dell’Europa come fortezza, una visione che ignora i vincoli dell’era della globalizzazione.
D’altra parte, è vero che i limiti delle strutture e delle politiche europee che regolano i flussi migratori hanno favorito quei governi e quelle forze politiche che pensano che la soluzione della crisi migratoria sia alzare muri e barriere e ritornare al nazionalismo. L’interminabile, e tutt’oggi irrisolta, disputa sull’allocazione di 160.000 rifugiati – un numero insignificante se consideriamo che la Turchia dà ospitalità a 3 milioni di persone – mostra quanto rapidamente stia progredendo la frammentazione dell’UE. In teoria, il problema ha una soluzione semplice: affidare alla Commissione europea il compito di stabilire quote vincolanti per gli Stati membri circa il numero di immigrati da accogliere. Ma in pratica, i governi nazionali non sono disponibili ad accettare limitazioni alla loro sovranità.
Inoltre, i controlli ai confini sono stati temporaneamente reintrodotti in Germania, Austria, Danimarca, Norvegia, Ungheria, Svezia, Slovenia, Malta, Belgio e Francia. Questo provvedimento non solo non risolve la crisi migratoria, ma ha un costo enorme. Una ricerca della Fondazione Bertelsmann afferma che il ritorno permanente ai controlli ai confini costerebbe all’economia europea 530 miliardi di dollari della crescita del PIL nel prossimo decennio. Il che equivale al ripristino dei dazi doganali. Il costo stimato della fermata di un’ora di un camion per il controllo di confine è 55 euro.
Ciò significa che l’accordo di Schengen è moribondo ed è in corso l’operazione di smantellamento dell’UE. L’Europa è malata. La sua malattia consiste nelle sue profonde divisioni politiche e nell’assenza di solidarietà. Papa Francesco ha descritto l’Europa come una nonna “stanca, invecchiata, non più fertile e vitale” e ha aggiunto che “i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembrano aver perso la loro forza di attrazione”.
Se è un sogno credere che i flussi migratori possano essere fermati ai confini nazionali, è necessario cercare di affrontare il problema alla radice, cioè nei paesi da cui i migranti provengono. Questo è il rimedio principale per alleggerire la pressione della migrazione di massa. I principali flussi hanno origine in tre Stati falliti, lacerati dalla guerra civile – Siria, Iraq e Libia -, che offrono terreno fertile per la penetrazione dell’ISIS. Mentre dalla Siria e dall’Iraq arrivano perloppiù rifugiati, dalla Libia arrivano immigrati economici provenienti dall’Africa Sub-Sahariana.
La distinzione fra rifugiati e migranti economici si basa sulla Convenzione sui Rifugiati di Ginevra adottata nel 1951. Un rifugiato è una persona che fugge dal suo paese per salvare la sua vita e preservare la sua libertà. Invece, l’immigrato economico è una persona che decide di spostarsi per migliorare le prospettive future per sé e per la sua famiglia. Che i migranti fuggano per la fame o per la guerra è moralmente irrilevante. Per le persone la cui vita è in pericolo, non c’è differenza fra morire di fame o per la guerra. Eppure, coloro che sono classificati nella prima categoria sono designati come immigrati economici e possono pertanto essere respinti.
Anche se è stata incapace di raggiungere un accordo sull’accoglienza dei migranti, l’UE ha capito che il vero problema è intervenire nei paesi in cui hanno origine i flussi migratori. L’accordo con la Turchia, il paese che dà ospitalità al più ampio numero di rifugiati, è un tentativo di affrontare questo problema. Ma adesso l’accordo è in discussione. Erdogan ha dichiarato che la Turchia non cambierà la sua legge anti-terrorismo, una condizione posta dall’UE per permettere l’ingresso senza visto dei cittadini turchi. Egli ha ampiamente usato quella legge per mettere a tacere i suoi oppositori. L’ultimo esempio è la condanna a cinque anni di due noti giornalisti turchi per avere rivelato segreti di stato riguardanti il contrabbando di armi da parte del governo verso la Siria. L’accordo UE-Turchia è stato fortemente criticato per avere concesso alla Turchia lo stato di paese sicuro per i rifugiati, poiché è provato che la polizia abbia respinto rifugiati provenienti dalla Siria e abbia ucciso alcuni di loro.
Con la chiusura della rotta dei Balcani, ci si aspetta che i rifugiati siriani raggiungano la Grecia e l’Italia attraverso il mare. Ma la nostra sfida più grande per il futuro è quella degli immigrati economici che arrivano dall’Africa, la cui popolazione si stima che raddoppierà entro il 2020 e la sua età media è fra i dieci e i venti anni. Questi dati ci dicono che la forza di attrazione dell’Europa – un continente di persone anziane e caratterizzato da un forte declino del tasso di natalità – sarà irresistibile e che i flussi migratori sono destinati a durare decenni. Fra il 1880 e il 1950, 27 milioni di migranti hanno lasciato l’Italia. L’esodo ha cominciato a diminuire solo con l’industrializzazione del paese. L’Africa non è sostanzialmente diversa e ha bisogno di una soluzione simile, anche se i tassi di sviluppo di alcuni paesi suggeriscono che il processo può evolvere molto più velocemente. L’Italia è al centro dei flussi migratori dall’Africa. Questa è la ragione per cui il governo ha proposto un “patto per la migrazione”, una sorta di Piano Marshall per l’Africa, che è stato accolto con favore dall’UE. Ma la discussione è ancora aperta su come finanziare il piano di investimenti. La sfida che l’Europa deve affrontare è tra il ritorno del vecchio demone del nazionalismo, che compromette la coesione dell’UE, e il ritorno alla solidarietà, l’unico principio che può portare a unificare la politica estera e di sicurezza e a dare all’UE il ruolo di attore globale. David Cameron ha lanciato l’allarme in un discorso al British Museum lo scorso 9 maggio nell’ambito della celebrazione del Giorno dell’Europa. Egli ha dichiarato che la Brexit potrebbe accelerare la disgregrazione dell’UE e aumentare il rischio di guerra in Europa. “Possiamo essere così sicuri che pace e stabilità nel nostro continente siano assicurati senza ombra di dubbio?” ha affermato. È dalla fine della Seconda Guerra Mondiale che non sentivamo un capo di governo evocare il fantasma della guerra in Europa. Se l’Europa cadrà a pezzi, quel rischio diventerà realtà.
Il primo obiettivo che l’Europa deve conseguire è la costruzione di un ordine di pace nel Mediterraneo e più specificamente in Siria, Iraq, Gaza, Yemen e Libia. Una UE più forte potrà acquisire l’autorevolezza necessaria a convocare una conferenza sulla sicurezza e sulla cooperazione nel Mediterraneo, in grado di stabilizzare l’area, di ricostruire gli stati falliti e di promuovere un piano di investimenti per l’Africa ed il Medio Oriente.
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