Inizieremo, in barba con molte delle normali regole di stesura di articoli, con una citazione presa da un manuale di sociologia urbana “Sociologia delle città” di Alfredo Mela (ed. 2013): “Si tratta ora di focalizzare l’attenzione su un fenomeno specifico, rilevante per i destini della città e della sua dimensione culturale (intesa, in questo caso, soprattutto con riguardo alla cultura ‘diffusa’): quello che potremmo designare parlando di una esplosione delle differenze”.
Riassumendo molto brevemente il discorso che viene portato avanti dall’autore, quello che viene definito postmodernismo ha portato, a cavallo tra il XX e il XXI secolo, una serie di incertezze sistemiche che hanno rotto i canoni della cultura, nell’ambito urbano, nel manuale. Al di là del mondo delle città, ci si può facilmente rendere conto che quello che viene definito come postmodernismo o età postindustriale, è diventata certamente sinonimo di eterogeneità e di varietà. La spinta globalista che le nuove reti di comunicazione e le migrazioni trans-continentali hanno portato nel mondo, ad esclusione di una o due enclave totalitarie totalmente slegate (come la Nord Corea), hanno spinto ad un vero e proprio melting pot di culture, differenti, spesso anche in conflitto tra di loro, all’interno dei contesti nazionali più vari. Allo stesso tempo, le stesse nazioni hanno cominciato ad abbattere le barriere che le dividevano l’una dall’altra, quelle europee prima di molte altre. Il continuo scambio di persone e informazioni ha creato un mondo decisamente diverso rispetto al passato, in cui è possibile incontrarsi-scontrarsi con culture totalmente differenti dalla propria, studiarle, affrontarle, nei casi peggiori combatterle.
Questa eterogeneità ha portato i sistemi culturali di stampo e identità nazionale ad entrare in una radicale crisi. Mela mette in risalto come le città, entità ancora più piccole, siano arrivate ad un punto di rottura con il passato, vedendo la propria struttura, urbanistica e sociale, frammentata, spezzata e rivoluzionata dai mutamenti legati alla nuova popolazione. Questa crisi, che è diventata capillare, ha permesso da un certo lato della società di far entrare non solo le differenze nel mondo contemporaneo, ma anche una capillare paura.
La società dell’incertezza e del rischio, come l’ha definita Ulrich Beck sul finire del XX secolo, è una società che ha paura. Nei momenti di crisi le popolazioni, sotto la guida di leader approfittatori, hanno spesso ceduto alla paura per arrivare ad una fantomatica sopravvivenza da minacce spesso identificate in nemici che non sono tali, immagini prodotte al fine di distrarre le masse da quelli che sono spesso i reali problemi di una nazione o una minoranza.
Eppure, la risposta allo stato di incertezza e di rischio percepito, perché sempre di percezione si parla, non viene altro che dalla cultura. La cultura che si può definire come “diffusa”, ovvero non la cultura alta, quella delle élite e delle accademie, ma quella popolare, quotidiana, che forma atteggiamenti e comportamenti.
Atteggiamenti e comportamenti che vengono pesantemente influenzati anche da quelle che sono le opportunità di festa e di riunione.
Se qualcuno ha mai avuto l’occasione di vivere delle particolari celebrazioni nel meridione d’Italia, o nelle città arabe, potrà notare il grande potere unificatore, ma anche in qualche modo, liberatorio, che la “festa” può avere. Allo stesso modo le feste nazionali e popolari hanno il potere, nonché in parte motivo d’essere proprio, teso alla creazione del senso di unità e appartenenza di un dato gruppo ad un dato contesto geografico, politico e culturale. Piazzate in maniera strategica, le feste si riempiono di riferimenti storici tesi a rafforzare una certa visione del mondo che si vuole comunicare ai partecipanti. Così il 4 luglio troviamo, negli Stati Uniti, l’Independence Day, celebrazione dell’adozione della Dichiarazione d’Indipendenza, che fin dalla guerra contro l’Inghilterra viene celebrata. In Francia troviamo il 14 luglio come festa nazionale, che cade come ricordo sia della presa della Bastiglia ma principalmente come anniversario della Festa della Federazione. Sono due esempi di date che, calate all’interno di un contesto storico nazionale molto preciso, che hanno però l’effetto di creare e rafforzare quella che è l’identità nazional-popolare francese e americana, legandola indissolubilmente a un simbolismo preciso (le parate, le celebrazioni nelle case).
Anche l’Unione Europea ha un suo giorno, il 9 maggio, scelto perché da un lato simbolo della fine della Seconda Guerra Mondiale, ma principalmente perché rappresenta, con la presentazione della Dichiarazione Schuman, l’inizio del processo d’integrazione europea. Su questo ci si vuole soffermare.
L’Europa ha bisogno che la sua festa, che sia il 9 maggio o che in futuro cambi, sia più che un giorno qualsiasi sul calendario, rilevante solo per un federalista particolarmente affezionato. L’Europa ha bisogno che il 9 maggio sia, come il 14 luglio o il 2 giugno, una vera e propria festa. Un giorno in cui gli uffici siano chiusi, in cui vi siano celebrazioni, una festività vera e propria che faccia un chiaro riferimento all’Europa. Non all’Unione, ma all’Europa. Una celebrazione di una cultura nuova, che pure ha delle storiche basi in tutto il contesto europeo, una cultura della eterogeneità. Perché, seppur Beck e molti altri sociologici, filosofi e geografi abbiano avuto ragione nel dire che, nel passaggio dall’epoca moderna all’epoca postmoderna vi sia stato un passaggio chiaro da un mondo della certezza, o di finte certezze, ad uno di incertezza, non è altrettanto scontato l’esito spesso ideologico di questo passaggio, ovvero un lasciare quasi le cose così come sono, o, ancor peggio, nelle mani di una leadership molto ben decisa nel puntare tutto sulla paura e sull’aumento dell’incertezza stessa come strumento per alimentare la prima.
Eppure, nel caos, spesso, si trovano anche i fondamenti per il passo successivo. Così, dopo la Seconda Guerra Mondiale le nazioni europee hanno trovato anche la forza di mettere da parte delle radicali divergenze per formare qualcosa di diverso, così, nel caos del passaggio postmoderno, si può trovare la base per una cultura dell’eterogeneità che vede in entità come l’Unione Europea una delle sue possibili espressioni, avendo racchiuso al suo interno le culture europee, regionali e locali più disparate sotto un unico tetto. Un’impresa che, se oggi ci appare quasi scontata, ha una portata storica.
L’Europa, il racchiudere in sé ventotto unità nazionali che hanno avuto storie spesso confliggenti e che, al loro interno, vivono un’altissima varietà culturale e sociale. L’Italia, una tra tante, ne è un perfetto esempio, con tutti i regionalismi culturali, se non provincialismi e localismi, che l’han sempre caratterizzata. Anche nazioni che hanno invece una storia unitaria più lunga, come la Francia, la Spagna o l’Inghilterra, vedono prosperare al loro interno un coacervo di differenti culture e microsocietà. L’Europa ha portato a livello continentale questa eterogeneità, dandogli uno spazio di confronto, dialogo e costruzione a livello intra-nazionale.
La cultura europea diffusa che si dovrebbe auspicare e che una vera festività del 9 maggio dovrebbe rappresentare, è proprio una cultura dell’eterogeneità, una cultura che chiude le porte alla paura dell’ignoto e del diverso per ammettere che la grande forza dell’Unione è stata, e sarà sempre, quella di aver accettato le differenze culturali per quello che sono ed averle racchiuse insieme, rispettandone le unicità ma portandole ad una nuova forma di collaborazione.
L’attacco alla “cultura occidentale”, se così vogliamo chiamare il grande ombrello sotto cui racchiudere le culture dei paesi appartenenti a quello che consideriamo come Primo Mondo, spesso sbandierato come la grande minaccia del XXI secolo, è al massimo limitato ad una frangia, estremista e limitata, molto più piccola di quello che appare, dell’umanità. Perché bisogna specificare che, se dobbiamo parlare di nemici della “cultura occidentale”, questi non sono solo quelli che vengono sbandierati come i terroristi islamici, ma anche quei gruppi che, in grembo all’Europa, o agli Stati Uniti, ne distruggerebbero alcuni dei valori più basilari come la libertà di espressione e di informazione, partendo proprio dalle loro istituzioni. Non è questo il momento di affrontarli, non qui.
È però vitale la parola cultura per il processo di integrazione europea. I processi funzionali e politici sono stati sicuramente necessari, importantissimi per arrivare al punto attuale. Non si andrà avanti, questo è sicuro, senza però un passo in avanti nel mondo culturale. L’abbattimento delle barriere doganali, ivi la libera circolazione di persone e informazione, i programmi di scambio culturali universitari e non, tutto questo insieme di iniziative ha favorito l’economia ma anche lo scambio tra culture che troppo spesso, anche conoscendosi, si conoscevano per stereotipi. Non basta però la semplice possibilità, c’è bisogno di un serio impegno sul fronte culturale da parte anche istituzionale, da portare sul piano locale-urbano. Un primo punto di partenza è proprio rendere il 9 maggio una vera e propria festa dell’Unione, l’occasione per celebrare le differenze che compongono l’Europa e che stanno venendo vissute e descritte come una debolezza del sistema, piuttosto che come la sua principale forza e innovazione.
La cultura dell’eterogeneità, come l’abbiamo definita, è la risposta all’incertezza che sembra star dominando le percezioni delle comunità e società contemporanee. Non si deve confondere in nessun modo infatti la realtà con la percezione che ne viene costruita intorno. L’incertezza, nella realtà, è sempre esistita. L’entropia è innata nei sistemi sociali. La costruzione di sistemi monolitici fondati su fantomatiche certezze, come un sistema basato su mandati divini, è una delle soluzioni che l’umanità ha applicato per rispondere a questa entropia. Oggi quelle risposte sono vecchie, sanno di polvere e libri vecchi. L’incertezza però non deve diventare la scusa per la chiusura e per il ritorno a quel passato che viene tanto mitizzato, dinanzi la paura, anzi, il terrore atavico verso le difficoltà che il mondo sta affrontando.
È l’apertura verso ciò che è diverso e nuovo, la capacità di accettare l’apertura e la differenza, queste sono le chiavi di volta, le soluzioni, per affrontare questo secolo nemmeno entrato nei suoi vent’anni. L’Europa ha ricostruito dalle polveri delle due grandi guerre mondiali una nuova sé, grazie all’unione, non all’odio verso ciò che non si comprendeva e conosceva. Il 9 maggio può diventare una festa simbolo di ciò che l’Europa davvero rappresenta e un primo passo verso la costruzione di una cultura europea, che non sarà un totem totalitario ed unico, ma piuttosto un insieme di culture, sempre pronto a espandersi, ad accettare ed a crescere.
Segui i commenti: |