La Bielorussia, tra cambiamenti e futuri incerti

, di Davide Emanuele Iannace

La Bielorussia, tra cambiamenti e futuri incerti
Fonte: ranslation: «Fair elections. Tribunal. Freedom to the political prisoners». Protest rally against Lukashenko, 16 August. Minsk, Belarus. CC Wikimedia Commons.

La Bielorussia è un paese dalla storia travagliata. Ha visto sul suo solo combattere pagani e cristiani, ordini cavallereschi e imperi. I nazisti l’hanno rasa al suolo durante la Seconda Guerra Mondiale con particolare violenza. Alla caduta dell’impero sovietico, non ha conosciuto un processo di democratizzazione apparente, come molte altre nazioni ex-URSS, ma è rimasta salda nelle mani di Aljaksandr Lukašėnka, presidente dal 1994.

Una presidenza che ha mantenuto la Bielorussia stabile, almeno finché la situazione geopolitica ed economica han mantenuto il paese vivibile. La pandemia di COVID-19, la crisi economica e le relazioni sempre più tese con la Russia, con cui pure Lukašėnka ha mantenuto un rapporto a tratti bipolare, di avvicinamento e allontanamento continui, con un movimento simile verso la vicina Unione Europea e gli Stati Uniti, hanno improvvisamente rotto i delicati equilibri che tenevano insieme il paese est europeo. Un gioco difficile, in particolare quando il vicino Cremlino non si fa scrupoli a scatenare conflitti civili e usare armi, da cyber a fisiche, pur di raggiungere i suoi scopi. Se Lukašėnka è riuscito però fino al 2020 a mantenersi in piedi, ora sembra che il castello bielorusso stia incontrando delle difficoltà consistenti. L’arresto e l’esilio di molti oppositori politici han portato alla ribalta una donna, apparentemente fuori dai giochi politici nazionali, Svetlana Tikhanovskaya, che si è trovata a rappresentare tutto l’insieme di forze contrarie all’ennesima ri-elezione di Lukašėnka.

Oramai è quasi un mese che le piazze di Minsk, e non solo, sono occupate da proteste. Proteste che vedono giovani e donne in prima linea contro Lukašėnka, le sue forze di polizia e i soliti uomini in verde che han fatto la loro comparsa già in altri teatri di scontro di moscovita interesse. Una situazione comunque tesa, che ha visto un serio peggioramento nelle ultime giornate, con l’arresto ad esempio di Maria Kolesnikova, l’ultima delle tre leader della protesta contro Lukašėnka rimasta in Bielorussia. Inizialmente temuto come rapimento, Kolesnikova è stata poi ritrovata in un carcere governativo, detenuta con l’accusa di tentato colpo di stato. Uno dei tanti arresti immotivati che han visto studenti e donne manifestanti essere portati diretti nelle sovraffollate carceri bielorusse.

Se Lukašėnka e le piazze popolari hanno ben espresso le loro posizioni, rispettivamente di mantenimento del potere e di cambio di regime, almeno sulla carta, sono le posizioni russe ed europee che invece meritano attenzione. La Russia ha dimostrato ampio pragmatismo nell’intervenire in situazioni simili. Per quanto Lukašėnka si sia dimostrato ambivalente nei suoi rapporti con la Federazione, è anche sinonimo di relativa stabilità, un contatto storico nella regione, che vede la NATO ampliare la sua rete di supporto sia a nord che a sud della Bielorussia. Lukašėnka è interessato a mantenersi al controllo di Minsk e i suoi desideri di indipendenza potrebbero tranquillamente annullarsi dinanzi la prospettiva di perdere il suo trono, portandolo quindi a scendere ai patti di Mosca, che lo vorrebbe più vicino e controllato.

Allo stesso tempo l’Unione Europea ha altrettanto interesse sia nell’evitare una violenta escalation al suo confine, sia allo stesso tempo a dimostrarsi ancora come un affidabile faro di difesa dei diritti politici e sociali. Le dichiarazioni, nazionali e comunitarie, hanno portato a condanne più o meno forti contro il regime bielorusso. Joseph Borrell ha condannato le violenze e espresso solidarietà verso i manifestanti. Allo stesso tempo, sono state varate nuove sanzioni contro ufficiali bielorussia e lo stesso Lukašėnka, come quelle lanciate dai paesi baltici prima ancora dell’Unione Europea stessa.

Unione Europea che si dimostra ancora ampiamente divisa, specialmente in materia di politica estera. Sponde interne, come quella greca, che ha portato al non voto verso una dichiarazione comune dei ventisette membri, dimostra come la mancanza di un’autorità federale rischi di far diventare le parole di Borrell di condanna solo carta straccia. L’agenda greca, che ha voluto sfruttare il voto contrario per far pressione verso l’UE nella sua diatriba mediterranea contro la Turchia, è entrata in diretto contrasto con quella che dovrebbe essere invece un’agenda europea estera comune.

L’Unione Europea, come si sta dimostrando fin dalla crisi in Siria e in Libia, non riesce a generare azioni politiche unificate che siano capaci di dimostrare la presenza di un’entità alle sue spalle. Le parole dette si scontrano abbastanza spesso con la realtà politica interna delle singole nazioni, troppo spesso in competizione tra di loro e con obiettivi divergenti. Il Medio Oriente, ancora una volta, fa da lezione in questo campo.

La posizione della Bielorussia la rende suscettibile a interessi diversificati da parte dei suoi vicini, quali la Polonia e i paesi baltici, ma anche alla Germania e all’Unione Europea in sé per sé. Da un lato vi è il desiderio di contenere l’espansionismo russo, sempre più teso a controllare quella che era la vecchia sfera di potere sovietico. Un desiderio che è anche spirito di sopravvivenza, in particolare per le tre giovani repubbliche baltiche, più e più volte sentitesi, o realmente, minacciate dal Cremlino tramite una combinazione spesso di fake news, cyber-warfare o dipendenza economica ed energetica. Un discorso simile si può estendere alla Polonia o alla vicina Ucraina, paesi che sentono da sempre la pressione di Putin nei loro affari, come la seconda sa particolarmente. La presenza di Lukašėnka al potere in Bielorussia ha sempre fornito uno strumento a Putin. La possibile svolta democratica nel paese, in particolare con una leadership meno legata al passato sovietico, potrebbe essere la possibilità per i paesi della zona baltica di fare fronte compatto contro il Cremlino.

Per l’Unione Europea il passaggio di consegne da Lukašėnka a un successore democraticamente eletto sarebbe una vittoria sia politica che ideologica, ma soprattutto se l’Unione fosse capace di sostenere una posizione unica rappresentativa di tutti e ventisette i paesi membri; sarebbe una dimostrazione della sua esistenza in politica estera, qualcosa di cui adesso si sente un disperato bisogno. La pandemia, una cattiva gestione dell’informazione, i litigi interni, hanno dimostrato i limiti dell’Unione ma anche messo in luce una serie di problematiche interne mai sopite, che fuoriescono quasi irrimediabilmente ad ogni crisi grave e sostanziale.

Quello che, però, sta venendo portato alla scoperta nuovamente dalla crisi bielorussa, è quindi l’impossibilità dell’UE di mantenere una posizione unica, qualunque essa sia. Una posizione che sia rappresentativa di tutta l’Unione nel suo intero e che, espressa, venga mantenuta. La mancanza di una politica estera comune europea fa sempre di più sentire la leggerezza della sua assenza e le sue ripercussioni, croniche e altamente pericolose, sulla stabilità del continente e sulla sicurezza degli stati membri dell’Unione. La Russia ha mostrato un’aggressività non indifferente, che è andata acuendosi man mano che le sue problematiche interne hanno risentito della crisi epidemiologica e conseguentemente economica, ma anche politica. Questo meriterebbe un discorso a parte, ma la posizione di Putin è sostanzialmente sempre più in bilico tra gli interessi degli oligarchi, dell’élite militare e di quella sociale e culturale, nuova comparsa nel panorama russo.

La popolazione bielorussa ha iniziato esprimendo il suo dissenso alle passate politiche di Lukašėnka ma è inutile illudersi pensando che questo possa avere un effetto sulla politica interna e sulla posizione del rieletto presidente. Non con la presenza di quegli strani “alieni verdi” interessati a fare in modo che, molto alla Tommaso Da Lampedusa, tutto cambi senza che nulla cambi. Che, se Lukašėnka diventasse un peso morto insostenibile, la sua sostituzione de facto non porti nessun cambiamento. Per la Russia non è tanto in gioco solo un paese satellite, quanto l’esistenza di un esempio di cambiamento possibile. Se l’Europa vuole farsi promotrice della sua sicurezza e anche, allo stesso tempo, dei diritti che vuole difendere e diffondere, deve iniziare a farlo fornendosi di una politica estera comune efficace, efficiente ma soprattutto che esista realmente, che non sia solo parole. Le sanzioni possono essere considerate un primo passo, ma quello che è necessario fare è iniziare una fase di dialogo, costruttivo, con le parti attualmente in piazza e nei palazzi del potere, tenendo ben a mente sia la presenza russa che l’assenza americana, il cui vuoto, da riempire, si fa sempre di più sentire. L’Europa non può continuare a giocare la geopolitica distrattamente, senza fornirsi dei giusti strumenti, che vanno dalla comunalità delle decisioni alla presenza di forze armate operative non a livello nazionale, ma europeo, che possano fare da pressione laddove possibile. In questi tempi turbolenti, in particolare sui confini proprio del Vecchio Mondo, sta diventando essenziale presentarsi come un attore singolo, non come il debole rappresentante di ventisette anime, menti, e agende, diverse.

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