La campagna per il referendum sulla Brexit vista da Londra

, di Federica Martiny

La campagna per il referendum sulla Brexit vista da Londra

«Essere o non essere» era il dilemma di Amleto. «Rimanere o non rimanere», si potrebbe dire che sia quello dei britannici contemporanei.

Se l’Amleto è la storia di una vendetta, questa è invece la folle storia della nostalgia di un tempo glorioso. Ed è molto meno nobile. I fili che ne intessono la trama sono il nazionalismo, l’egoismo estremo e l’irresponsabilità politica di un linguaggio crudele ed esagerato, tutti insieme avvinghiati nel terribile e insensato omicidio della Deputata del Labour Jo Cox al grido «Britain first!». Ad una settimana esatta dal voto del 23.

In un mondo dagli equilibri multipolari gli inglesi rimpiangono il potere coloniale dell’Impero, la sua supposta superiorità culturale, e parlano ancora oggi con fierezza del Commonwealth ( e del fatto che la regina Elisabetta II è il capo di Stato di 16 Paesi, dei cosiddetti Reami del Commonwealth, tra cui basti ricordare Canada e Australia). Per questo stare in Europa non è mai stato facile. E oggi lo è meno che mai.

La crisi economica, l’incapacità di gestire insieme il problema dell’immigrazione, l’incapacità di avere una visione d’insieme che non sia egoistica e miope, tutto questo rende l’UE il nemico perfetto contro cui scagliarsi nel rimpiangere la sovranità perduta. E in un momento in cui in tutta Europa si soffre per la crisi economica, quasi ovunque il nazionalismo sta guadagnando terreno, con la sua carica di pericolosità e di odio. I movimenti e partiti estremisti trovano terreno fertile per tramutare il risentimento sociale in odio politico e etnico, al punto che in tanti pensano «Britain first!» ( o l’equivalente versione nostrana ) e al punto che una donna, una parlamentare è stata uccisa probabilmente perché faceva campagna per il «Remain».

Chiunque si trovi a Londra in queste ultime settimane ha notato che i toni del dibattito sono accesi, nelle strade, sugli autobus.

Su parecchi taxi che girano per le strade del centro è attaccato un’adesivo con la scritta «Leave!» e la città è piena di manifesti, che appaiono anche sui grandi schermi multimediali dopo la pubblicità di un profumo e prima di quella dei gioielli, con la scritta provocatoria «Love Europe, not the EU». Nella campagna intorno a Londra, sulla strada che porta all’aeroporto di Stansted c’è una grande casa con un palo alzabandiera con l’inconfondibile bandiera britannica che sventola, e tutt’intorno, un gigantesco striscione che copre tutto il recinto: «Your Country needs you! Vote Leave!».

ll neo eletto sindaco di Londra, Sadiq Khan, in un articolo apparso sul giornale The Mirror in cui invitava tutti i Labour a votare per rimanere nell’UE, apre il suo invito dicendo «I don’t believe that the world will end if Britain leaves the EU next Thursday».

Qualche settimana fa lo stesso Khan, aveva esortato i giovani a registrarsi per andare a votare, sapendo che è proprio tra questi ultimi la percentuale più alta di europeisti.

Ormai le registrazioni sono chiuse (una nota: chi voleva evadere la Council Tax non si è registrato, e questo elemento potrebbe avere un’influenza sul numero di giovani britannici che si sono registrati o meno) e il clima è sempre più teso.

I giornali e i telegiornali parlano di Brexit continuamente. Ma non solo loro. Se ne parla nelle Università (alla London School of Economics ad esempio il 7 e l’8 giugno ci sono state due conferenza sul tema aperte al pubblico esterno: la prima «The future of Britain in Europe» con Ian Begg, Gordon Brown e Sara Hagemann; la seconda «The case for Brexit: whay Britain should quit the EU» tenuta dal noto euroscettico Alan Sked) e se ne parla appunto per le strade di Londra. Chi fa campagna perché il voto di giovedì decreti la permanenza della Gran Bretagna nell’UE usa principalmente l’argomento economico e poco quello valoriale, ideale, emotivo: molti manifesti elettorali riproducono il murales disegnato a Bristol sul bacio tra Donald Trump e Boris Johnson.

Una bellissima eccezione è la lettera pubblicata sul The Guardian del novantaseienne Franklin Medhurst che spiega come chi ha combattuto la seconda guerra mondiale e ha visto morire i propri compagni non può che volere restare in Europa.

Così la Gran Bretagna, sempre più divisa, si prepara a votare per decidere quale sarà il suo destino. A Londra, una città piena di bellezza e contraddizioni, dove le disuguaglianze sociali sono drammatiche, dove 8000 persone dormono per strada ogni notte e dove gli affitti hanno raggiunto prezzi insostenibili, dove ci sono persone che arrivano da ogni angolo di mondo, dove si vedono tantissime donne col Burqua integrale come a Mossul, in questa metropoli che amiamo definire multiculturale, perché non siamo capaci di vedere che per una vera integrazione la strada è ancora lunga, secondo la maggior parte degli inglesi ci sono troppi immigrati europei. Giovani uomini e donne in cerca di lavoro, accusati dell’impennata dei prezzi degli affitti e di essere in cerca dei «benefits» del governo inglese.

Qualunque sarà l’esito del voto sul Brexit, l’idea di solidarietà e di unione ne uscirà azzoppata e ci vorrà tempo per guarire le ferite di questa campagna. Chissà come sembriamo miseri agli occhi di Frank Medhurst, avendo tutto, la pace e la possibilità di costruire un’Europa di tutti, democratica e federale, e non curandocene.

Fonte immagine Flickr

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