La mia disobbedienza finisce dove comincia la tua inciviltà

, di Cesare Ceccato

La mia disobbedienza finisce dove comincia la tua inciviltà
Gustave Klimt, Public domain, via Wikimedia Commons

Nell’ultimo periodo si stanno moltiplicando i controversi gesti degli attivisti di Just Stop Oil e di Last Generation che, in nome della giustizia climatica, invece di intaccare i centri del potere politico, prendono di mira opere d’arte e strade pubbliche. I gruppi parlano di disobbedienza civile, abusando del termine e, soprattutto, non tenendo in considerazione la storia delle azioni che davvero hanno portato a un cambio di rotta nella società.

Introdotta nel diciannovesimo secolo dal filosofo statunitense Henry David Thoreau, la locuzione disobbedienza civile ha per significato il rifiuto di obbedire a una legge giudicata iniqua, promosso attraverso pubbliche manifestazioni. Tra chi l’ha applicata nel corso della storia, oltre allo stesso Thoreau, imprigionato per essersi rifiutato di pagare le tasse legate alla guerra contro il Messico, vale la pena ricordare emblemi dei diritti civili o del pacifismo quali Martin Luther King e il Mahatma Ghandi, o ancora movimenti nonviolenti come il Partito Radicale di Marco Pannella ed Emma Bonino che ne ha fatto marchio di fabbrica nelle proprie campagne in opposizione del servizio di leva obbligatorio, a favore della liberalizzazione delle droghe leggere e a sostegno del diritto all’aborto. Negli ultimi anni, sempre nello stesso ambiente, si è fatta strada la disobbedienza civile di Marco Cappato per la legalizzazione dell’eutanasia, da lui dettagliatamente illustrata nel libro “Credere, disobbedire, combattere” il cui titolo è a sfregio di uno dei più dittatoriali degli slogan fascisti.

Che una pratica tanto vicina all’anarchia potesse prima o dopo venire abusata era facilmente intuibile, ciò che non ci si poteva aspettare era come a fraintendere la disobbedienza civile creando episodi quantomeno controversi fossero attivisti della rivoluzione con tutte le carte in regola per essere il nuovo Sessantotto: la rivoluzione green.

Quando il 14 ottobre due attiviste di Just Stop Oil entrarono alla National Gallery di Londra e rovesciarono della zuppa di pomodoro addosso a “Vaso con quindici girasoli”, dipinto di fine ‘800 di Van Gogh, per poi domandare a gran voce ai presenti se valesse più un dipinto rispetto al pianeta e alle persone che lo abitano, venne compiuto sì un gesto illegale di impatto, ma che difficilmente si può inserire nella sfera della disobbedienza civile. Infatti, sebbene il messaggio fosse indirizzato alla politica, come ammesso dallo stesso gruppo ambientalista, con particolare riferimento al Governo conservatore britannico reo di aver fatto grossi passi indietro sull’emergenza climatica, a subire le conseguenze non fu questa ma l’arte. Conseguenze minime nel caso di specie, siccome l’opera era protetta da un vetro, massime dal punto di vista esterno, con la mancata condanna che ha portato in tutto il mondo a una ripresa di azioni simili, già viste in passato e mai efficaci, anzi, spesso etichettate come esagerate e pericolose.

È così che altri attivisti per il clima, stavolta di Last Generation, il primo novembre, bloccarono in Germania un’autostrada sdraiandosi sull’asfalto, noncuranti dell’ambulanza trasportante un ciclista in fin di vita davanti a loro, il 15 novembre, in Austria, presero di mira il capolavoro “Vita e Morte” di Gustav Klimt, esposto al Leopold Museum, con un denso liquido nero, il 18 novembre, alla Fabbrica del Vapore di Milano, lanciarono otto chili di farina sulla “Art Car” di Andy Warhol. A volte solo con degli slogan, a volte con vere e proprie lezioni supponenti e paternalistiche ai visitatori delle varie gallerie - una sorta di climatesplaining - questi hanno lanciato sempre lo stesso messaggio: la politica non fa abbastanza per combattere la crisi climatica, di cui si parla troppo poco.

Come a Londra, il destinatario resta sbagliato. Diversamente da Londra, il rischio di causare un danno irreparabile è più alto. E da Londra in avanti, le querelles si ingrandiscono, se un barattolo di zuppa di pomodoro è passabile, otto chili di farina non fanno abbastanza la differenza nello spreco alimentare che chi tiene all’ambiente dovrebbe combattere?

Senza contare poi che di crisi climatica si parla, è ineccepibile, peccato lo si faccia nel modo sbagliato. Questo merita una critica. Qualunque agenda politica, qualsiasi giornale, quasi ogni pubblicità ha al suo interno la questione climatica… tra greenwashing e peso sulle spalle dei giovani. È impossibile non restarne frustrati, ma gli obiettivi del messaggio, di nuovo, sono altri: la politica, le aziende, gli stakeholders. Non sto invitando a rapire il figlio di un lobbista delle centrali a carbone e chiedere come riscatto che queste vengano chiuse immediatamente, sia chiaro, per un bene a loro detta superiore provarono qualcosa di simile le Brigate Rosse ormai più di quarant’anni fa, e la storia non fu clemente con loro.

Chi protestando ha fatto la storia, non solo non ha utilizzato la violenza, ma non ha mai ceduto all’inciviltà. In apertura di articolo ho citato il movimento del Sessantotto, che ha avuto i suoi paradossi, con forse i primissimi black bloc, gente che per ignoranza dello scopo o per semplice benessere nell’anarchia, genera caos all’interno di manifestazioni di buon senso - si pensi alle proteste di Genova nel 2001 in occasione del G8 o, più recentemente, a quelle di Black Lives Matter negli Stati Uniti - ma che non grazie a questi ha scatenato una rivoluzione. Furono dimostrazioni e occupazioni pacifiche, boicottaggi ispirati a quello degli autobus di Montgomery in Alabama, irriducibilità davanti a politiche razziste - come quella repubblicana nel sud degli States - o imperialiste - come quella sovietica in Cecoslovacchia - a colpire il mondo intero e a cambiare il passo dell’umanità, talvolta più talvolta meno drasticamente.

I e le giovani leader della rivoluzione green, in primis Greta Thunberg, Vanessa Nakate e Mitzi Jonelle Tan, al cospetto dei potenti della Terra ci sono arrivati/e con la voce più silenziosa che si possa udire: quella dello sciopero. Come per il Sessantotto c’è dell’incredibile, da un’assenza a scuola una mattina di fine agosto, si è creato Fridays for Future, con ogni probabilità il movimento oggi più conosciuto su scala globale. E se l’obiettivo ancora non è stato ottenuto, forse non c’è da ripensare il metodo utilizzato finora, che è stato apprezzato, che ha portato a riflessioni, che un minimo indispensabile l’ha raggiunto, ma c’è da continuare sulla stessa rotta, disobbediente, non arrendevole, ma civile.

Ben venga esprimere ciò in cui si crede e combattere per ottenerlo, non è il caso di ridursi a essere i militanti dell’episodio 35 del podcast “Non hanno un amico” di Luca Bizzarri, quelli solo di apparenza, quelli che sui social non restano con le mani in mano ma che se c’è da fare qualcosa in più “non possono proprio”. E capisco che tenere testa a una bestia come l’ecoansia sia difficile, ma farsi trascinare dalla stessa, si è visto, è controproducente. Come insegna il passato, il miglior attivismo, quello più utile, quello che centra l’obiettivo, è quello fatto con coscienza.

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