Parliamo di politica estera europea e dei diversi ambiti in cui si va a muovere

La politica estera europea e le sue diverse luci

, di Davide Emanuele Iannace

La politica estera europea e le sue diverse luci
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Nella settimana dedicata dalla JEF Europe alla storia e alla politica europea, in vista della Conferenza sul Futuro dell’Europa, oggi parleremo dei problemi e delle opportunità legate alla politica comune estera europea.

Quando parliamo di relazioni estere e di una politica comune europea in tal campo, quello che può venire rapidamente in mente è una serie di tentativi che non hanno mai posto davvero in crisi il sistema nazionale. L’ombrello europeo, nelle relazioni estere, è stato il capro espiatorio perfetto per quasi tutte le scelte più complicate – vogliamo dire anche, a volte, becere, barbare, irrazionali – condotte dagli Stati in preda ai rigurgiti da un lato del nazionalismo, dall’altro delle paure più sconsiderate verso le minacce del momento, che siano gli stranieri, i cosiddetti poteri forti o i classici nemici politici interni.

L’Unione europea, ad oggi, non sembra ancora essere riuscita a imporsi come un attore globale. Nonostante rappresenti il 16 del PIL mondiale, riunisca quasi il 10% della popolazione globale e sia responsabile del 15% del commercio globale di beni nella sua interezza, ad oggi l’UE sul fronte estero continua a comportarsi come una organizzazione internazionale rappresentativa di ventisette Stati membri. Stringe accordi e memoranda, partecipa alla vita di organizzazioni internazionali, ma manca ancora di quel quid che permette di identificare una chiara, vera, politica estera europea. I passi in avanti, in parte e formalmente, li abbiamo visti e vissuti, ma non sono stati quei passi in avanti che si potevano sperare e che potevano rappresentare una traslazione in un contesto federale – più che multinazionale.

La PESC, la Politica Estera di Sicurezza Comune, che si basa sul modello intergovernativo, è stato forse più una battuta di arresto che un salto in avanti. Il ruolo dell’Alto Rappresentante così come del Servizio europeo per l’azione estera, questi organi e figure venutesi a creare con il trattato di Lisbona, non hanno completamente spezzato le redini delle nazioni sull’apparato delle relazioni internazionali.

Dopotutto, questo sarebbe in parte impossibile. La formazione di una politica estera è imprescindibilmente legata all’esistenza pregressa di una unità politica oggettiva, nonché al possedere gli strumenti utili a far valere questa politica estera – e questi strumenti sono sia la capacità di dirigere le politiche pubbliche in ambito europeo, sia di contare su di un apparato economico e militare compatto. Abbiamo spesso affermato che una difesa europea senza politica europea è di fatto un esercito senza guida, così come una politica comune senza degli strumenti militari è spuntata.

Si è già discusso, su Eurobull e non solo, delle diverse visioni possibili sul futuro della difesa europea, della politica estera comune. Un’opinione molto diffusa è che l’Unione, e di conseguenza il processo integrativo europeo, si sia spinto contemporaneamente su troppi binari, espandendosi a macchia d’olio ma disperdendo tanto le sue forze quanto la sua capacità d’impatto. Non procedendo a gradini, ma saltando scale dopo scale. Il funzionalismo graduale rimane però forse ancora oggi il miglior modo di approcciare le possibilità di sviluppare l’Unione verso una costruzione federale. Di per sé, i semi per questo obiettivo sono piantati e diffusi in tutti i diversi ambiti della Casa comune.

Nel trattato sull’Unione europea nella sua versione consolidata troviamo infatti un articolo 21, paragrafo 2, che delinea in maniera limpida i compiti delegati all’Unione in termini di politica estera. Ci si potrebbe chiedere, leggendoli, quanto le nazioni dell’UE siano state capaci di aderire a questi obiettivi nel corso dell’ultima decade. La politica migratoria, e Frontex di conseguenza, sono quanto di più lontano si possa immaginare dall’idea di “consolidare e sostenere la democrazia, lo Stato di diritto, i diritti dell’uomo e i principi del diritto internazionale [1].

Il memorandum sottoscritto dai Paesi membri con la Turchia – e tutto quello che è stato possibile, di conseguenza, osservare da una parte e dall’altra del confine turco-europeo, come nel caso del campo profughi di Lesbo – non sono esattamente in linea né con i principi fondamentali dell’Unione (non con quelli ufficiali almeno); né tantomeno con i diritti dell’uomo e i principi del diritto internazionale. Eppure, un articolo che sancisce delle linee guida lo troviamo, scritto nero su bianco.

Probabilmente, quello che serve all’Unione è semplicemente il raccogliere i frutti dei semi del passato per continuare la costruzione, graduale, costante, progressiva, della struttura federale. L’articolo 21.2 è un esempio tra tanti, di certo forse quello che più calza al settore delle relazioni estere. Sancisce dei punti in comune che è necessario promuovere e diffondere in chiave non nazionale bensì sovranazionale, l’unica chiave capace di fornire la potenza di fuoco, le risorse e le capacità per muoversi come attore globale in un contesto che è sia in espansione che in profondo cambiamento.

Innanzitutto, e mai ci stancheremo di ripeterlo, le nazioni europee non sono più il centro del mondo. Lo sono state, per quasi due secoli, signore indiscusse di un pianeta che esploravano e dominavano a loro piacimento. Quell’epoca, come altre epoche prima di essa, è finita. Non c’è più nessuna flotta di galeoni carichi d’oro ad aspettare nel golfo del Messico pronto a partire in nome del re di Spagna. Non c’è più nessun impero vittoriano che si erge sui tre oceani, né un impero francese che si estende da ovest ad est per il continente africano e oltre..

Venire a patti con un mondo di diversi centri di potere, in cui l’Europa in potenza ne può rappresentare uno tra i tanti, vuol dire pragmaticamente accettare che per sopravvivere al cambiamento del XXI secolo è necessario affidarsi a strumenti e strategie innovative. Lo stesso cambiamento che sta portando le nazioni a confrontarsi con sfide geopolitiche spesso non del tutto nuove, ma sicuramente diverse dal passato. La presenza di potenti Stati continentali, ma anche il cambiamento climatico, le grandi corporazioni, l’evolversi del mondo digitale al pari di quello fisico, il superamento delle barriere dell’orbita terrestre, il consumo sempre maggiore delle risorse planetarie, sono alcuni tasselli del complesso puzzle della contemporaneità. Difficilmente una singola nazione europea ha tanto le capacità quanto gli strumenti necessari ad interfacciarsi e superare una tempesta di simili grandezze.

Le sfide che abbiamo elencate sono, non casualmente, comprese tra quelle a cui sarebbe demandata l’azione estera dell’Unione Europea. Con cognizione di causa ci si è resi conto che raggiungere questi obiettivi necessita di un’azione comune, non singola, non in cooperazione, ma comune. Non è pensabile replicare una Libia nel prossimo futuro o una Siria, non solo perché le conseguenze nefaste di questo tipo di politica sono migliaia di morti e anni di guerra, ma anche perché non rappresentano nessuno sbocco per il futuro. Se i Paesi europei vogliono avere un peso, devono rinunciare ad averne uno in quanto singoli, ed ammettere che il mondo contemporaneo li ha superati.

L’Unione deve far sue le funzioni della politica estera, quelle che i trattati gli hanno già consegnato in parte, e svolgere questo lavoro connettendo gli interessi comuni degli Stati membri. È innegabile che molti di essi perseguano agende particolari che vengono lette come necessarie alla costruzione di una propria rete di sicurezza. L’azione tedesca verso la Russia per il Nord-Stream 2, così come l’opera francese in Sahel, insieme al locale complesso G5 rappresentano una chiara evidenza di come le nazioni europee abbiano ancora un proprio lascito storico, economico, politico, che incide sulla loro azione e dirige la loro mano. È possibile però re-immaginare tutto ciò, ma in chiave europea? È pensabile, ad esempio, immaginare una francese Barkanecon un contingente misto europeo, piuttosto che solo francese? È pensabile far sedere al tavolo delle trattative con i russi piuttosto che un delegato tedesco, un delegato dell’Unione. Non saremmo federalisti se non pensassimo che ciò sia assolutamente possibile, nonché desiderabile.

Nella realtà, tutto ciò non è utopico nel prossimo futuro. È difficile immaginarlo, ma non vuol dire che pochi anni fa non fosse impensabile una moneta unica, né tanto meno lo sviluppo di progetti congiunti come quelli all’interno dell’orbita PESCO. L’idea stessa, per esempio, delle fregate FREMM e delle unità navali della classe Orizzonte, l’idea di sviluppare congiuntamente una piattaforma navale avanzata e moderna, vuol dire molto. Vuol dire una convergenza di interessi, di industria, di know-how e collaborazione a più livelli raro da trovare nelle relazioni tra nazioni.

I PESCO sono uno dei tanti esempi di quanto già vi siano delle piattaforme e degli spazi di cooperazione che possano portare a nuovi ambiti di convergenza. Non sono gli spazi di una realtà federale. Non vuol dire, allo stesso tempo, che non ne possano rappresentare una prima base, una base sfruttabile in cui incentivare la collaborazione tra i suoi Stati membri e incrementarne la convergenza.

Se questi ambiti tecnici coinvolti nella PESCO e negli altri strumenti paralleli possono rappresentare uno strumento da riempire e ancora pienamente da sfruttare, rimane ancora un ambito geopolitico in cui l’Unione Europea deve comprendere a pieno il suo ruolo e scegliere la propria azione. Le deleghe che ad oggi mantiene, che possiede grazie ai trattati del post-2000, hanno frastagliato la sua operatività, creato meccanismi intergovernativi che han rallentato l’opera comunitaria, ma non l’hanno ancora fermata completamente.

Quello che ci si può auspicare è una centralizzazione dell’azione pubblica europea attraverso le sue agenzie ed enti e i suoi rappresentanti. Il Mediterraneo è sicuramente una delle prime aree, insieme all’Europa dell’est, in cui il ruolo dell’Unione deve diventare quello di un blocco non diviso. Con una Cina sempre più presente nel Mare Nostrume la Russia che tenta di difendere quello che reputa il suo proprio spazio vitale, con degli Stati Uniti ancora ambivalenti sul proprio ruolo e una NATO che sta cercando una propria realtà operativa nel mondo multipolare – un ruolo che non va dimenticato e che, anzi, può vedere ancora l’Europa protagonista – c’è bisogno che le istituzioni comunitarie facciano proprie le mansioni già loro affidate e rafforzino il loro peso.

Le soluzioni ci sono, sono varie e toccano diversi ambiti. Collaborazione industriale-tecnica tra i paesi membri, rafforzata dalla creazione di consorzi come Airbus anche in ambiti più strettamente della difesa – e la collaborazione Rheinmetall-Leonardo va in questa direzione; una centralizzazione dell’opera pubblica europea, perché non vi siano dieci direttive diplomatiche in contrasto tra di loro come in Nord Africa nella scorsa decade; più collaborazione europea sul lato estero con attori, che siano locali o nazionali, che rappresentino da un lato un modo di rafforzare gli interessi europei, ma che dall’altro siano una vera alternativa al passato, alla geopolitica del passato.

Non solo, però. Innanzitutto, vi è la sfida del climate changeche l’UE deve affrontare, e lo può fare solo con delle riforme che siano complete e che spingano ad una politica energetica – che ha per forza riflessi geopolitici, indubbiamente – comune a tutti i suoi stati membri. Discutere a livello europeo di Nord Stream 2 è necessario non solo perché si parla della Russia come attore terzo, ma anche perché vuol dire parlare di gas, di produzione, di trasporto, di che tipo di ottica estera vogliamo avere con un grande gruppo di nazioni, quelle produttrici.

Allo stesso tempo, bisogna rendersi conto che, più gli anni passano, meno fortunatamente l’UE rimane un esempio unico. L’Unione Africana, appena dall’altra parte del mare, ne è un esempio. Non è l’unico tentativo che sta venendo mosso ad oggi. Se nazioni come la Cina, la Russia o gli USA han la capacità di proiettarsi globalmente, le nazioni che possiamo definire come “minori” tendono ad aggregarsi per garantirsi un proprio spazio d’azione. Questo vuol dire, per l’UE, nuovi attori con cui relazionarsi. Vuol dire, anche, una validità confermata del proprio modello come possibile indirizzo di sviluppo.

Le sfide del XXI secolo sono sfide che richiedono impegni globali e intergenerazionali. La futura Europa federale rappresenta forse la miglior chance di assicurarci che la nostra società sia capace di raccogliere queste sfide e affrontarle in maniera compatta, unita e con un occhio sul lungo termine. Pensare a breve termine salverà forse la prima, e la seconda, prossima generazione. Non la terza. Il pianeta sta raggiungendo un punto di non-ritorno ma non lo si può affrontare tornando agli strumenti del passato, balzando all’indietro dentro i confini dello stato westfaliano, chiusi dentro le mura delle città-stato. C’è bisogno di, invece, balzare in avanti. L’Europa può, e deve farlo. E anche presto.

Note

[1Articolo 21.2, lettera b, Trattato sull’Unione europea nella sua versione consolidata

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