La retorica deludente dell’Europa intergovernativa. Riflessioni al tempo dei Flixbus

, di Giulio Saputo

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La retorica deludente dell'Europa intergovernativa. Riflessioni al tempo dei Flixbus

A parole, i partiti, gli uomini politici, i «grandi» leader che dominano indiscussi sui media ci sembrano tutti europeisti. Meglio, addirittura federalisti! Tutti a citare «il mito di Ventotene», a ricordare «il cammino dei padri fondatori». E poi?

Macron, Renzi o Gentiloni e la stessa Merkel, hanno creato numerose aspettative nei poveri europeisti che invece, alla prova dei fatti, prontamente disilludono.

Tutto questo accade per un motivo molto semplice: i capi di governo, come spesso i partiti che li selezionano, non rappresentano nessuna ragion di stato europea ma solo un piccolo e ristretto «orticello» nazionale. In questo senso, chiariamo un punto chiave: aveva perfettamente ragione Rousseau quando diceva che la somma degli interessi particolari non può creare la volontà generale. Lo stesso accade per la nostra comunità sovranazionale: la somma degli orticelli nazionali non realizza automaticamente alcun interesse comune europeo.

Anche se ci sembra incomprensibile che non si riesca a fare quello che riteniamo più logico per uscire dalla crisi sistemica che sta colpendo da anni il nostro continente, purtroppo dobbiamo considerare che le decisioni prese su tutti i grandi temi che richiedono un’Europa funzionante (per esempio migranti e integrazione, rilancio dello sviluppo economico, politica estera e di sicurezza) necessitano di un voto all’unanimità in Consiglio, dove siedono i nostri capi di stato. Un accordo per consenso a 28 è piuttosto difficile da raggiungere, oltre che decisamente antidemocratico. Qualsiasi risoluzione presa in questo modo rappresenta un compromesso al ribasso tra interessi divergenti.

Le conseguenze di questo assetto istituzionale sono gravi: l’Europa non ha la forza né gli strumenti per agire. Intanto, gli stati membri conservano gelosamente una sovranità illusoria, litigando sulle briciole del nostro futuro, perché comunque non hanno nessun potere sufficiente a governare realmente i fenomeni che ci circondano. La situazione sarebbe quasi comica, se non stessimo intanto pericolosamente vedendo una svolta securitaria a destra in tutte le forze moderate europee (dal cdx al csx), se non stessero per morire altre decine di migliaia di persone a pochi chilometri dalle nostre coste, se uno degli uomini più potenti del mondo non fosse Donald Trump e se non avessimo milioni di giovani disoccupati (basti controllare, per l’Italia, gli ultimi dati ISTAT).

Credo sia evidente che quella dei nostri leader politici è una posizione miope o irrazionale, mentre i tempi che viviamo richiederebbero lo sforzo creativo di elevarsi per compiere decisioni di portata epocale.

Purtroppo, seguendo l’impatto mediatico di alcune notizie, continuiamo a lasciarci ingannare dalle grandi affermazioni di persone che in realtà devono rispondere ad un interesse, a istituzioni e ad un elettorato che è meramente nazionale. Quelle che trionfano sono solo le chiacchiere intergovernative, a vincere è oggi la strumentalizzazione di un’Europa impotente che vediamo impegnata nel sacrificare i suoi valori fondanti sull’altare delle ragion di stato nazionale perché costretta all’incapacità di affrontare una situazione storicamente drammatica.

Per i riformatori di destra e di sinistra bloccati nell’ordine dell’esistente, l’Unione europea è passata rapidamente da capro espiatorio a promessa di redenzione contro il ritorno dei sovranismi. Il problema è che se le proposte di avanzamento istituzionale non vengono portate avanti e non si dà l’opportunità di funzionare all’Unione (ben oltre le soluzioni emergenziali) non possiamo aspettarci grandi risultati. Così facendo stiamo finendo per screditare le istituzioni sovranazionali e per lasciare ogni afflato di trasformazione arginato nel mondo dell’irrealizzabile o dell’utopia in nome di un fantomatico realismo politico.

Il pericolo di restare in questa «palude» è che lentamente divenga accettabile il ritorno al sistema westfaliano con tutte le sue tragedie, e l’idea che, in fondo, durante il Secolo Breve non si stava poi così male e che magari Mussolini ha fatto anche cose buone. Per esempio, consideriamo l’ultimo libro di Andrew Spannaus, il famoso analista che ha previsto l’elezione di Trump. La proposta contenuta in «La rivolta degli elettori: il ritorno dello stato e il futuro dell’Europa» è realmente angosciante perché va esattamente in questa direzione senza pensare neanche un istante alle conseguenze di un mondo schiavo del nazionalismo competitivo.

Vogliamo davvero tutto questo?

I federalisti sanno che per uscire da questa impasse è necessaria una svolta rivoluzionaria promossa da una forza autonoma che segni il passo. È una battaglia che non si delega, perché si tratta di combattere la stessa ragion di stato nazionale con l’aiuto del «popolo europeo».

Queste parole non sono assolutamente una novità ovviamente, ma spero possano servire da introduzione a questo scritto del docente federalista pavese Mario Albertini (Democrazia come lotta contro la ragion di Stato) che può davvero essere utile per guardare diversamente al presente e al prossimo futuro:

«La lotta per l’unità europea sta attraversando un momento paradossale: è certamente vero che maggioranze d’uomini nei partiti di democrazia, nelle stesse opinioni pubbliche, sono favorevoli alla sua concreta espressione, cioè alla federazione; ma è altrettanto vero che tutta questa situazione non produce alle basi una espressione politica, non produce ai vertici una iniziativa che ci rimetta sul terreno concreto della lotta. (...) La ragione di fondo sta naturalmente nel fatto che la politica, macroscopicamente, la fanno i partiti, e questi, anche se hanno accolto in passato, e in qualche modo (veramente in qualche modo!), una istanza federalista, oggi in sostanza gestiscono questi Stati nazionali, quindi, mentre possono subire la pressione di base e anche di vertice, subiscono anche la pressione del potere politico nella totalità delle sue condizioni, quindi delle componenti non democratiche dello Stato, quindi delle forze economiche, quindi del generale equilibrio partitario. (...) L’arma del progresso è l’unità delle forze democratiche su una diagnosi autonoma federalista, (...) il problema europeistico non sta dunque oggi nel proporsi, come fanno alcuni, problemi costituzionali, problemi economici ecc. senza nel contempo proporre, e proporre quelli al servizio di questo, i problemi dello schieramento per la politica di abbattimento dello Stato nazionale sovrano e di costruzione della federazione. In mancanza d’una discussione ampia su questo problema tutto quello che si può dire o fare attorno al problema cadrebbe tutto nel vecchio spartiacque: e tra pochi anni, consolidato il sistema rimesso in atto con Parigi dagli Stati nazionali nell’Europa occidentale, tutte queste cose diverrebbero le chiacchiere di Victor Hugo, e i pochi che oggi pongono disperatamente questo problema sarebbero tolti di mezzo da una combinazione, che starebbe sullo stesso metro di giudizio, di comunisti nazionalistici e falsi realisti, che li butterebbe in un canto come utopisti. Perché lo stesso comunismo ha buon gioco contro la tematica federalista solo al patto di poterla definire utopistica, e questo lo può dire sinché la democrazia non sa realizzare, attorno quella diagnosi dei federalisti e sul livello della lotta federalista, uno schieramento reale ed unitario. Perché qui utopistico, tolti i veli delle ideologie, vuol dire soltanto non ancora affermato.»

Insomma, direi che è giunto il momento di mobilitarsi come cittadini per far passare questo semplice messaggio ai nostri cari leader europei: le parole e i simboli sono importanti, ma i fatti lo sono decisamente di più. Non possiamo lasciar morire l’Europa a causa di questi stessi stati che sono «strumento e ostacolo» alla sua salvezza.

Fonte immagine Wikimedia Commons

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