LA TERZA VIA: IL NAZIONALISMO EUROPEO?

, di Domenico Moro

LA TERZA VIA: IL NAZIONALISMO EUROPEO?

Il passaggio della gestione del MFE da Spinelli ed Albertini, pur nella continuità della comune lotta per la federazione europea, ha rappresentato una svolta politico-culturale, tanto che i giovani federalisti di allora si ponevano continuamente una domanda: “siamo federalisti in quanto europeisti, o europeisti in quanto federalisti?”, dove la prima parte della domanda limita l’orizzonte dell’impegno federalista all’obiettivo della federazione europea; la seconda fa di quest’ultima una tappa verso un traguardo più ampio: quello della federazione mondiale. Nel tempo, la risposta data da molti federalisti è che “siamo europeisti in quanto federalisti”. Tuttavia, nel dibattito federalista, comincia a fare capolino, una terza via. Infatti, si sentono spesso affermazioni che, nel contenuto, anche se non nelle intenzioni, si richiamano ad un modello di unità europea ricalcata sul modello dello Stato nazionale. Con il presente articolo si intende dare un contributo ad una discussione su aspetti non secondari del pensiero federalista, inclusa la questione delle liste transnazionali.


Il concetto di “Stato nazionale europeo” sembra un ossimoro, ma non è così. Infatti, si sente sempre più spesso affermare che “l’UE deve avere una politica estera e di sicurezza unica e non comune”, oppure che “non è possibile istituire un esercito europeo senza il controllo da parte di un parlamento e di un governo europeo”, come se il modello istituzionale di riferimento fosse lo Stato nazionale e non un sistema federale. Per certi aspetti, anche la richiesta di liste transnazionali per le elezioni europee, si colloca su questa linea.

L’affermazione sulla politica estera europea è sbagliata. È vero che il senso comune, quando si trova di fronte alla politica estera di una comunità politica, sia essa accentrata o federale, dà per scontato che essa abbia una politica unica, ma tra i due casi vi sono delle differenze. In una comunità politica nazionale, vi è un solo agente, la nazione – per quanto entità ideologica - che, attraverso i suoi rappresentanti, decide la politica estera. Infatti, che senso avrebbe chiedersi se l’Italia deve dotarsi di una politica estera comune, piuttosto che unica? In uno Stato nazionale, la fase del processo decisionale e della decisione, coincidono. Nel linguaggio dell’Unione europea, invece, quando si parla di politica estera, si parla di politica “comune”. Nell’UE, unione pre-federale e quindi Stato di Stati in embrione, vi sono più attori, gli Stati membri, che partecipano all’elaborazione di una decisione: la fase del processo decisionale e quella della decisione comune sono distinte. In uno Stato di Stati, dunque, la politica estera è, allo stesso tempo, comune ed unica.

In secondo luogo, per quanto riguarda la politica estera dell’UE, non si parte da zero. Se è vero, come è vero, quanto afferma Wheare (K. C. Wheare, On federal government, 1951), secondo cui la politica estera di una federazione si attua con i trattati - commerciali e non -, occorre constatare che l’UE fa già politica estera, in quanto la politica commerciale è una competenza esclusiva dell’UE, decisa a maggioranza qualificata, salvo il caso dei cosiddetti “mixed agreements”, per i quali è prevista la ratifica da parte degli Stati membri, una procedura, peraltro, simile a quella canadese. Ma questo non deve stupire: anche negli Stati Uniti i trattati firmati dal Presidente devono essere approvati da due terzi del Senato e questo significa che un terzo degli Stati, che rappresenta il 7% della popolazione americana, può bloccare qualunque trattato: ad oggi, sono ben 45 i trattati firmati dal Presidente, ma non ancora ratificati. Piuttosto, quello che ancora manca all’UE è l’estensione del voto a maggioranza qualificata ai casi in cui la politica estera richiede il ricorso alla forza, sotto forma di sanzioni o dello strumento militare.

La seconda affermazione, correntemente ripetuta, è che un esercito europeo è impossibile senza un governo ed un parlamento che lo controlli e, quindi, senza una radicale revisione dei trattati attuali. Questa affermazione non è corretta, per due ragioni. Intanto, a livello europeo esiste un parlamento europeo eletto direttamente e il governo è assicurato dalla Commissione europea – su cui, come ha dimostrato il travagliato insediamento della Presidenza von der Leyen, che ha visto bocciati tre Commissari indicati dai governi nazionali, il Parlamento esercita un forte potere di controllo – e dal Consiglio europeo, che ha la voce principale in materia di politica estera e di sicurezza. Bisogna, inoltre, notare che l’Alto rappresentante dell’Unione per la politica estera e di sicurezza, a cui fa capo lo Stato maggiore europeo, è scelto dal Consiglio europeo ma deve ricevere l’investitura dal Parlamento europeo ed è contemporaneamente vicepresidente della Commissione europea e funge da raccordo tra Consiglio europeo, Parlamento e Commissione europea.

In secondo luogo, ancora una volta, si dimentica l’esperienza delle unioni federali esistenti, ed in particolare quella americana. Quest’ultima, come aveva già rilevato Wheare, è l’esempio di una federazione caratterizzata da quella che ha chiamato “dual army”, in quanto, per molto tempo, le milizie statali hanno prevalso, come dimensione, sull’esercito federale. E nel Federalist paper n. 46 a proposito della capacità di resistere degli Stati all’eventuale eccessiva forza militare del governo federale, si afferma che “To these [i 25-30.000 uomini delle forze armate federali] would be opposed a militia amounting to near half a million of citizens with arms in their hands, officered by men chosen from among themselves, fighting for their common liberties and united and conducted by governments possessing their affections and confidence. It may well be doubted whether a militia thus circumstanced could ever be conquered by such a proportion of regular troops”.

Concludiamo con il tema delle liste transnazionali, peraltro ben sintetizzato da uno studio di Notre Europe. Posto che la richiesta di liste transnazionali cerca di risolvere due problemi tra loro diversi, vale a dire, da un lato, l’elezione del Presidente della Commissione europea e, dall’altro, la nascita di partiti politici europei, qui ci si limita a due ordini di considerazioni. La prima è che nelle unioni federali esistenti non esistono “liste transnazionali”. In particolare, se è vero che nell’esperienza americana la lotta politica a livello continentale ruota attorno alla nomina del Presidente, è anche vero che, in oltre duecento anni, questa non ha dato vita a partiti nazionali americani: negli USA vi sono 50 partiti repubblicani e 50 partiti democratici che, al momento delle elezioni presidenziali, si alleano con le organizzazioni della società civile per scegliere gli elettori presidenziali su base statale, non nazionale.

Nel corso degli anni ’70 del secolo scorso, negli USA è stata discussa la possibilità di istituire un collegio unico nazionale per la scelta del Presidente. Con argomentazioni peraltro già contenute nei Federalist papers, la proposta è stata bocciata in quanto si sono voluti mantenere gli Stati alla base della vita politica americana, aggiungendo che è necessario contenere le tendenze omogeneizzanti e centralizzanti della società di massa, che un collegio unico avrebbe favorito a danno dell’autonomia statale (M. Diamond, The Federalist on Federalism: “Neither a National Nor a Federal Constitution, But a Composition of Both”, 1977). Bisogna infatti ricordare che il meccanismo federale è fatto per difendere il pluralismo della società e non per omogeneizzarla in base a qualche presunto legame comune, sia esso la lingua, la religione, il costume, ecc..

In secondo luogo, l’obiettivo nasconde un pregiudizio nazionalista che intende limitare, ponendo però le premesse per favorirne un altro ad un livello superiore, quello europeo. Infatti, le proposte avanzate da varie parti hanno come obiettivo quello di dar vita ad un demos europeo che prevale sul demos nazionale, istituendo una constituency europea, con un collegio elettorale specifico, dimenticando che in Europa si è in presenza, caso mai, di un demos “federale” europeo. Il collegio, inizialmente, sarebbe limitato a 25-30 parlamentari, ma dovrebbe lievitare, almeno secondo le attese di Macron, fino al 50% dei membri del Parlamento europeo. Il presupposto, sbagliato, alla base della proposta è che i rappresentanti dei cittadini europei siano più leali allo Stato di appartenenza che al partito.

Come si potrebbe arguire dalle proposte avanzate, dal punto di vista tecnico i cittadini europei dovrebbero votare su due liste, una nazionale ed una europea, ma il voto sarebbe chiuso, in modo da non alterare la distribuzione del numero di parlamentari che spettano a ciascuno Stato: l’eletto dovrà scegliere tra la nomina nella lista nazionale e in quella europea. Non si capisce quindi in base a quale meccanismo psicologico un deputato eletto nel collegio europeo, ma imputato allo Stato di appartenenza, dovrebbe far prevalere, nel proprio lavoro parlamentare, l’interesse europeo rispetto a quello nazionale. Piuttosto, si dovrebbe chiedere, da un lato, ai 22 Stati membri, o quantomeno ai più grandi di loro, tra cui la Francia, che hanno adottato il collegio unico nazionale per le elezioni europee e che favorisce il consolidamento di un punto di vista nazionalistico, di istituire dei collegi regionali o locali – come succede per la Camera dei Rappresentanti negli USA - in modo che vi sia il rapporto più stretto possibile tra elettori ed eletti, come è normale che sia in un sistema democratico; dall’altro, che il Consiglio dei ministri venga trasformato in un vero e proprio Senato degli Stati.

Il fatto è che partiti politici europei - sul modello dei partiti centralizzati nazionali e che è l’altra ipotesi che sottostà alla proposta delle liste transnazionali -, a livello europeo non nasceranno, probabilmente, mai. Sarà piuttosto la lotta politica europea, promossa con la procedura dello Spitzenkandidat e che la von der Leyen vuole difendere, che costringerà i partiti europei ad alleanze tra di loro e con la società civile europea, al fine di raggiungere la maggioranza dei membri del Parlamento europeo necessaria a far eleggere il loro candidato alla Presidenza e superare così il limite principale dell’attuale procedura. Del resto, la prova che è la lotta politica ad influenzare l’organizzazione partitica, e non viceversa, viene proprio dall’Italia, dove l’attuale Lega, nata come Lega Nord con l’obiettivo della secessione, si è data una struttura nazionale quando ha deciso di porsi l’obiettivo di diventare partito di governo (nazionale).

Fonte immagine: «Rai Scuola».

Tuoi commenti
  • su 10 dicembre 2019 a 12:43, di claudiovolt In risposta a: LA TERZA VIA: IL NAZIONALISMO EUROPEO?

    Grazie per la sintesi, davvero interessante e ricca di spunti. Una domanda sulla questione dei partiti transnazionali: che ne pensa del fenomeno Volt?

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