Nei giorni scorsi a Strasburgo c’è stato un dibattito tra Manfred Weber e Frans Timmermans – gli spitzenkandidat, cioè i candidati alla Presidenza della Commissione, del Partito Popolare Europeo del Partito dei Socialisti Europei, i due maggiori gruppi europei - trasmesso in tv in Francia da RFI e France24. In questo periodo si stanno svolgendo molti dibattiti con i vari candidati alla presidenza della Commissione, promossi da organizzazioni della società civile, come l’Unione Europea dei Federalisti, o da think tank, come Bruegel. E presto inizieranno anche dei veri e propri confronti organizzati tra tutti i candidati dei vari partiti (questa sera dovrebbe esserci il primo «The Maastricht Debate 2019»). Si tratta di occasioni importanti per mettere a fuoco le priorità, le proposte e l’agenda politica della prossima legislatura europea.
Infatti, subito dopo le elezioni lo scontro politico sarà sul nome del prossimo Presidente della Commissione, e – forse ancora più importante – sul potere di nomina di tale figura. I Trattati europei prevedono che debba essere eletto dal Parlamento europeo, su proposta del Consiglio europeo – ovvero dei Capi di Stato e di governo nazionali – che decide a maggioranza qualificata, tenuto conto dei risultati delle elezioni europee e fatte le opportune consultazioni. In pratica il Consiglio europeo dovrebbe avere il ruolo e svolgere il compito che ha in Italia il Presidente della Repubblica dopo le elezioni. È ovviamente un ruolo importantissimo, ma in ultima istanza sono i gruppi presenti in Parlamento e le coalizioni che lì si formano a determinare il nome del Presidente del Consiglio. Vari Capi di Stato e di governo – come Macron, che non fa parte di una grande famiglia politica europea – vorrebbero tornare alla situazione precedente il Trattato di Lisbona e recuperare al Consiglio europeo un potere di scelta più discrezionale rispetto alla nomina del Presidente della Commissione. È evidente che il Parlamento cercherà di difendere le sue prerogative, faticosamente ottenute.
La questione può sembrare uno scontro di potere tra due istituzioni europee. In realtà riguarda la natura dell’Unione e il potere di scelta dei suoi cittadini. La democrazia è la possibilità per i cittadini di influire sulle decisioni che li riguardano, in particolare attraverso la scelta dei propri governanti. Pertanto, distinguiamo i regimi democratici in presidenziali o parlamentari, secondo che tale scelta avvenga attraverso l’elezione del Presidente o del Parlamento – esiste poi un sistema misto come quello semi-presidenziale con esecutivo bicefalo. Il Trattato di Lisbona ha avvicinato l’UE a una democrazia parlamentare e la Commissione a un governo federale di tipo parlamentare. Così facendo ha dato ai cittadini europei la possibilità con il proprio voto di influire non solo sulla maggioranza parlamentare che influisce nell’azione legislativa – come avviene con le elezioni parlamentari nei sistemi presidenziali - ma anche sulla definizione della leadership e dell’indirizzo politico della Commissione europea, che è l’embrione di un esecutivo federale. In sostanza così il nostro voto europeo conta di più, incide di più. Se il potere del Parlamento su questo punto venisse meno, sarebbe un grave passo indietro nella democrazia europea. Soprattutto si chiuderebbe la porta verso un sistema di governo parlamentare a livello dell’Unione. E per arrivare ad un sistema di governo democratico europeo rimarrebbe solo la strada presidenziale, attraverso la fusione delle presidenze di Commissione e Consiglio in una presidenza dell’Unione eletta direttamente dai cittadini europei. Una soluzione complessa in una realtà multi-culturale e multi-linguistica come l’Unione, e che comunque richiederebbe una riforma dei Trattati. Contro quasi tutte le previsioni, nel 2014 il Parlamento riuscì a imporre Juncker, candidato del partito di maggioranza relativa, il Partito Popolare Europeo. Allora ci fu un grande accordo di tutte le maggiori forze politiche europee già prima delle elezioni, sulla necessità di sostenere ed eleggere il candidato del partito che avesse ottenuto più seggi alle elezioni europee. Si tratta peraltro di una prassi abbastanza diffusa in diverse democrazia parlamentari mature. Ma i sistemi parlamentari possono funzionare anche in altro modo, come in Italia, dove l’attuale presidente del Consiglio non era stato proposto da nessuno prima delle elezioni. Ogni partito aveva presentato il proprio candidato alla carica di premier, anche se poi nessuno ha raggiunto una maggioranza sufficiente a tal fine e così per formare una coalizione si è dovuto trovare un candidato di compromesso. In un contesto di personalizzazione della politica è utile che anche a livello europeo le idee dei vari partiti camminino con chiarezza sulle gambe di alcune persone, indicate come candidati alla presidenza della Commissione. E tutto di guadagnato per la democrazia se sarà poi uno di loro a ottenere tale posizione.
È dunque utile seguire con attenzione i dibattiti e le posizioni dei candidati alla Presidenza della Commissione, perché sarà difficile togliere al Parlamento il suo potere. E se il Regno Unito parteciperà al voto europeo, potrebbe esserci un testa a testa tra i Popolari e i Socialisti. Infatti, il PPE non ha partiti affiliati lì, mentre il PSE spera in un buon risultato del Labour, che potrebbe contribuire significativamente ai numeri complessivi dei socialisti, che dipendono molto anche dalla tenuta dei socialisti spagnoli, dei social-democratici tedeschi, e del PD italiano. Nel dibattito Weber e Timmermans hanno riconosciuto i limiti dell’UE nel rispondere alle esigenze dei cittadini, anche a causa di competenze e poteri inadeguati, di cui auspicano il rafforzamento. Ad esempio, in tema di migranti, politica estera e di sicurezza e controllo delle frontiere, su cui il Parlamento ha appena approvato una Guardia Costiera e di frontiera europea di 10.000 effettivi. Entrambi hanno difeso l’integrazione europea contro gli attacchi nazionalisti, dicendosi indisponibili ad accordi con loro. Lo scontro principale è stato sulla politica economica, con Weber schierato con i falchi dell’austerity e delle riforme nazionali, e Timmermans sul fronte della solidarietà europea e di un nuovo contratto sociale europeo, per una UE che affronti prioritariamente le questioni della giustizia sociale e ambientale, rafforzando il pilastro sociale, incluso un salario minimo europeo, legato al salario medio di ciascun Paese membro. Entrambi si sono detti favorevoli ad una tassazione europea delle multinazionali digitali, che gli Stati membri non riescono a tassare. Entrambi considerano cruciali la stabilizzazione dell’area di vicinato e lo sviluppo dell’Africa. Weber ha difeso le scelte europee guidate dai popolari, mentre Timmermans ha chiesto urgentemente una grande riforma progressista dell’Unione.
Il dibattito è stato civile, pacato, concentrato sulle opzioni concrete della politica europea e sulle prospettive di riforma. Senza inutili attacchi polemici, ma con la consapevolezza che la posta in gioco alle elezioni europee sono gli equilibri nel prossimo Parlamento, e di conseguenza la leadership della Commissione e l’agenda e le priorità politiche dell’UE per i prossimi anni.
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