Non chiudere gli occhi su Guernica

, by Davide Emanuele Iannace

Non chiudere gli occhi su Guernica
Fonte: Guernica mural in Gernika, Papamanila, This file is licensed under the Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported license. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Mural_del_Gernika.jpg

Prendiamo un caso ipotetico. Abbiamo un territorio, un pezzo di terra in cui confliggono diverse entità politiche e dalle diverse ideologie religiose. La malagestione passata ha reso la situazione insofferente per le più diverse frange di popolazione che animano l’area. Questo ha portato a scontri continui, omicidi, eliminazioni, arresti continui fino a che una delle due parti decide di rifiutare l’esistenza dell’altra e, accusando il governo di essere debole e incapace di difendere gli stessi interessi della sua popolazione, opta per prendere il potere e decidere di eliminare la parte avversaria.

In tutto questo, la situazione politica internazionale è particolarmente tesa. Le “grandi potenze” si rifugiano dietro uno scudo di apparente neutralità, di blanda condanna della violenza, rifiutano l’intervento diretto nel conflitto – anche se è evidente che alcune di loro hanno forti interessi perché una parte prevalga sull’altra – e lasciano che sia la pura forza bruta a essere la bilancia finale della conclusione, che a volte sembra scontata e scritta già nei libri di storia.

L’opinione pubblica di quelle “grandi potenze” o del resto del pianeta, nel frattempo, non è immobilizzata, anzi. Ha scelto quale fronte prendere, legittimando di fatto l’altro lato nella sua battaglia. La cecità intellettuale porta acqua ai mulini della propaganda e innesca quei meccanismi che la stessa opinione pubblica sta pensando, se non di scardinare, di star rifuggendo e affrontando direttamente tramite la sua azione. Manifestazioni di piazza e persino volontari, in alcuni casi, vorrebbero insistentemente che una delle due parti si fermi, rifugga la violenza, si fermi, accetti l’esito già scritto dello scontro e, anche se l’altro lato abbia espressamente deciso di eliminare in ogni caso il suo avversario, si limiti nell’azione.

Dovette essere un problema per qualsiasi intellettuale, politico, generale o persona interessata capire come muoversi in quello che fu il marasma del ’36 mentre la Junta Militare guidata dai generali Mola, Sanjurjo e Franco prendeva il potere nei territori cosiddetti nazionalisti e dava vita alla guerra civile spagnola. Erano anni strani, quelli del ’36. Il terrore serpeggiava in Europa, con l’uomo medio diviso tra la fedeltà alla propria patria e le paure della duplice avanzata: il fascismo-nazismo da uno e il comunismo rivoluzionario di Stalin dell’altro. Tutte e due promettevano una cosa, sicuramente: violenza. Rimaneva l’atroce dubbio per l’uomo medio per cosa farsi uccidere, o per chi uccidere. Hitler e Mussolini tolsero il dubbio all’Europa scatenando poco dopo il II conflitto mondiale, ma leggendo di persone come Blum in Francia, appare evidente il disastro che si ritrovavano tra le mani.

Uscire vivi dal Primo Conflitto Mondiale per affondare in una situazione post-bellica disastrata, riprendersi ed affondare di nuovo per colpa delle speculazioni finanziarie di Wall Street mentre tutto intorno il mondo brucia di rivoluzioni, cariche dei loro significati ideologici più vari.

La Spagna del ’36 era certamente una polveriera che si era caricata nel corso degli anni, e che arrivava alla fatidica data devastata da conflitti politici, culturali e sociali che avevano visto confliggere monarchici, carlisti, repubblicani, separatisti, anarchici, comunisti, socialisti. E che poi li vide tutti ammazzarsi tra di loro, e nel caso di Barcellona 1937, anche nello stesso fronte repubblicano i coltelli volarono – i comunisti liquidarono gli anarchici per prendere il potere del fronte antifranchista, facendola molto breve. Dimostrazione che a volte un semplice nemico comune non fa valere il detto “Il nemico del mio nemico è mio amico”.

Qualcuno di voi, forse, leggendo le prime righe avrà pensato ad un altro conflitto, ad un conflitto che infuoca le coste orientali del Mediterraneo, che sta vedendo milioni di persone soffrire per una guerra condizionata da decadi di errori e orrori che ha avuto come esito una completa polarizzazione del discorso pubblico. Una guerra che sta avendo come principale conseguenza quella di farci riconsiderare una serie di elementi che, fino a poco fa, abbiamo dato per scontato: la riscoperta del ruolo delle Nazioni Unite (perché misteriosamente ora fanno comodo), il ruolo sempre meno neutro e più manipolabile dei media di massa (e la non neutralità di una serie di fonti che si dava per scontato che invece fossero paladini del buon giornalismo, o che provassero ad esserlo).

Se vi state chiedendo perché non stia facendo nomi fino a questo punto, e perché non ne faremo fino alla fine di questo brano, è perché i nomi non servono. Sono solo finzioni stilistiche, si sa. Invenzioni culturali e costrutti sociali creati per dare alla nostra mente un senso di ordine in un confusionario nome. E anche perché i nomi sono ottimi solo a polarizzare, a darci l’idea di starci schierando con il bene, contro il male in terra, di star prendendo la parte dei giusti, delle vittime, dei morti. Non serve citare i giornali, perché per ogni servizio di informazione che potrei scrivere, qualcuno di voi penserebbe “Loro non sono neutrali”, ma per i motivi contrari al vostro vicino.

Non serve nemmeno dire dove si sta combattendo. Non c’è notiziario e giornale che non stia coprendo, anche quado non ha mai nemmeno avuto una sezione di relazioni internazionali, proprio quel conflitto. È di noi che invece si vuole parlare. Di noi esseri umani delle zone non di combattimento che ci siamo sentiti in dovere fin dall’inizio di prendere posizione – giustamente, ingiustamente? – e di dire la nostra – con saggezza, frettolosamente, con cognizione di causa?

Se c’è qualcosa che il recente conflitto, scoppiato chissà dove, dovrebbe farci capire, è che il mondo non vive e segue i nostri schemi mentali. Ancora peggio, che le scelte “facili” non sono mai facili e che prendere uno schieramento di per sé vuol dire prendere parte contro un altro attore, che ha a sua volta le sue ragioni, i suoi bisogni, le sue esigenze, la sua volontà di esistere. Volontà di esistere che sembra andare a escludere che l’esistenza dell’altro possa continuare, pena il fallimento.

Come ci siamo arrivati a questo punto? Molti hanno approfondito il tema, ne abbiamo parlato su Eurobull.it a nostra volta (trovate il nostro poco negli articoli collegati) e i massimi esperti di politica, terrorismo, religione, geografia, economia, filosofia, hanno provato a fare luce sui motivi, i legami nascosti ed evidenti, che hanno portato a questo 1923 revisionato e rivisto per il secolo XXI. Di certo, non è più nel nostro potere controllare nessuno di quei legami, non possiamo recidere fili come le Parche, tagliare la linfa vitale di questo o quell’attore per provare a rendere la situazione gestibile secondo la nostra gretta e semplificata morale e visione.

Ci sono molte cose che si potrebbero fare, a dire il vero. Non fomentare l’odio è una. Provare, chi è fuori dalla situazione di conflitto, a mantenere l’obiettività laddove possibile, prima di spingere a nuovi errori – come quelli che già furono fatti sull’onda dell’emotività e di altri sentimenti spesso non esplicabili nero su bianco.

Un’altra cosa che sarà necessario fare è essere, tutti, sinceri con sé stessi. E non si parla di esseri umani, si parla anche di quegli attori istituzionali e politici che nascondono mano e viso dietro schermi e bandiere di neutralità fittizia. Si può prendere posizione su un tema, e lo si può ammettere. I generali repubblicani che decisero di andare contro i propri colleghi rivoluzionari lo dichiararono, molti morirono proprio per questa scelta. Tanti intellettuali scelsero chiaramente che posizione prendere sul conflitto civile spagnolo. Qualcuno lo aveva fatto con la propria azione, senza nemmeno dichiararlo quando il ’36 entrò nella sua fase calda. Federico Garcia Lorca ce lo ricorda con la sua morte.

Prendere posizione è una delle più sacrosante libertà umane, una di cui i governi europei non dovrebbero mai scordarsi. Prendere posizione vuol dire però assumersi una responsabilità storica, dai risvolti imprevedibili, e richiede un’onestà che – sinceramente – non si legge in nessuna piazza, in nessun talk-show e in nessun social network fino ad ora. La sincerità richiede obiettività, freddezza e la decisione di prendere in mano un filo e percorrerlo fino alla fine del gomitolo o fino all’uscita dal labirinto. Vuol dire ammettere a sé stessi che la via è giusta, anche nella sua non-giustezza, e ferma nel suo traballare. Vuol dire ammettere errori e orrori, giustificarli, per il “bene superiore”, qualunque esso sia. Vuol dire poi ammettere che l’altro schieramento, proprio perché come noi, combatterà per il suo “bene superiore”.

Solo che la polarizzazione ad oggi ha portato a credere che ci siano solo due beni superiori contrapposti, due schieramenti, due decisioni da prendere possibili, due outcome finali. Ecco, l’errore è stato buttarsi nella trappola della propaganda, dei TikTok e della stampa partigiana, e pensare che ci sono solo un 1 e uno 0. Invece, è possibile ancora prendere le parti dei civili, prendere le parti delle vittime, al di là della barriera e della bandiera sotto cui sono nati, e ragionare sotto un’unica ottica: come salvare i civili? Come evitare altri cento, mille Lorca? Come evitare un altro assedio di Guernica?

L’Unione Europea, non smetterò mai di dirlo, ha sbagliato tutto fino ad ora. Memore della lezione di Blum e di altri esperti di appeasement di altre epoche, ha scelto una via binaria. Ecco, a posto di prendere dai suoi stati membri i lati peggiori, l’Unione dovrebbe imparare dai suoi tratti migliori, dalla fermezza di dire la cosa giusta anche quando il mondo ti dirà che devi prendere un chiaro schieramento, e anche se alla fine ti consegnerà una sconfitta politica che vuol dire vittoria civile. C’è una sola priorità che l’Unione dovrebbe avere: salvare i civili, evitare che quanto guadagnato sul fronte della pace venga sacrificato per parole vane come sicurezza (quale sicurezza mai sarà quando ci sarà solo deserto?) e degli interessi geopolitici (parola che ha il sapore del fosforo bianco, oramai).

Dovrebbe porsi come obiettivo quello di intervenire come mediatore reale, e, se non si sentisse capace di farlo, supportare e sopportare le Nazioni Unite come organo unico che ha provato – anche se non sempre neutralmente – di portare ordine in un mondo nel caos. Non prendere scelte binarie non vuol dire non scegliere. Nero e bianco sono due parti dello spettro dei colori, non sono gli assoluti in cui buttarsi. C’è un enorme mare tra di loro, un mare in cui agire – rapidamente, decisamente, con chiarezza di intenti – per evitare che uno dei due colori elimini l’altro.

Vorrà dire perdere tempo, risorse, per uno scopo che apparentemente non avrà risvolti strategici degni di nota. Umanamente, ha però il pregio di essere un tentativo per salvare vite, che sono l’unica moneta di cui dovrebbe importarci – altrimenti, potremmo non occuparci nemmeno di tanti altri problemi, come il clima. Avrebbe il pregio di ricordare che la politica può non essere mero pragmatismo, ma anche umanità. Il pragmatismo ci ha condotto a volte lungo vie oscure, senza una guida anche idealistica, una luce, un po’ un faro che ricordi che il pragmatismo serve perché le persone possano vivere serene, libere, e soprattutto, possano vivere. E non sopravvivere.

Il recente conflitto di cui non faccio il nome può essere la brutale, ma unica, occasione per provare ad affrontare la verità della politica del nostro nuovo secolo, che ha riscoperto il piacere di assopirsi davanti i drammi e le ingiustizie, nel nome del giusto e pragmatico approccio, del dato e di silenzi per non dare sponde a frange di popolazione estremiste. Chiudere gli occhi ci consegna Barcellona e Guernica, l’Alcazar e le altre stragi e battaglie della guerra civile spagnola. Picasso non ha disegnato per sé stesso. Ha disegnato per noi. Meglio non dimenticarlo.

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