Pena di morte. Il problema e le soluzioni legislative

, di Daniele Panella, Davide Emanuele Iannace

Pena di morte. Il problema e le soluzioni legislative

Introduzione

Si intende con “pena di morte”, al giorno corrente, la pubblica esecuzione in seguito ad una giudicata colpevolezza di un soggetto qualsiasi dinanzi lo Stato. Nonostante due terzi dei paesi del mondo l’abbiano oramai abolita o non introdotta per pratica (1), la pena capitale continua a essere uno strumento giuridico a disposizione dei giudici di nazioni come la Cina, il Kuwait o gli Stati Uniti. Senza conoscere distinzione tra quelle che possiamo definire “nazioni democratiche” e non, molti paesi condannano con la perdita della vita alcuni dei loro criminali. Le stime di Amnesty International, ONG che ha come missione la lotta contro tale pena, hanno messo in luce che in Cina vi siano state più di mille esecuzioni l’anno, più di cento in Iran e Arabia Saudita, tra venticinque e cento negli USA, in Egitto, in Yemen. Alcuni paesi, come la Corea del Nord, non dichiarano dati a proposito. In paesi come l’Iraq o la Siria, dove le condizioni del sistema giudiziario sono sub-ottimali, la pena di morte è una pratica diffusa (2), in particolare nella loro locale guerra al terrore (o al nemico), per cui anche in questo caso non sono disponibili delle precise statistiche a riguardo.

Come sarà messo in rilievo più avanti, nella parte di riflessione centrata sull’Italia e la sua storia giuridica sulla pena capitale, tale pratica è contemporaneamente sia anti-utilitaristica che anti-etica. Anti-utilitaristica perché, verrà messo in rilievo, l’uso della morte come strumento di pena non porta ai risultati a cui il sistema giudiziario di per sé teso. Anti-etica perché, di per sé, è l’eliminazione finale di un soggetto, che al di là della sua colpa, non può essere punito con la perdita di vita.

Eppure, il caso dell’omicidio Sacchi, ma nella realtà gran parte delle storie di cronache nere, mettono spesso in rilievo una tendenza che è sotto gli occhi di tutti. Tendenza che ha spesso fatto capolino all’interno della politica, che sia italiana, che sia americana o di qualsiasi altro paese, ovvero l’impellente richiesta della morte di coloro che sono presumibilmente omicidi. Vendetta, in poche parole. Nessun giudizio critico di valore, né tanto meno di riflessione sul sistema penale. Semplice, facile, vendetta. Ogni volta che i media diffondono la notizia di uno stupro, un atto orribile, un omicidio, tra i commenti fioccano le richieste di usare la forca come giusto strumento detentivo. Non solo è di per sé grave questo auspicio all’uccisione indiscriminata, ma lo è ancora di più se ci fermiamo a riflettere sui bersagli: persone indiziate. Non colpevoli in terzo grado, ma persone che le forze dell’ordine hanno indicato come sospetti prioritari delle loro indagini.

Altro esempio: l’omicidio di un carabiniere in servizio ad opera (si presume) di un americano. Il caso, di pochi mesi fa, iniziò con quella che possiamo definire, come fa anche Rolling Stones, come una vera e propria caccia al “nero”, quando i sospetti delle forze dell’ordine iniziarono a convergere contro due persone di colore. Si scatenarono alcune delle peggiori bestialità possibili sui social, non solo da parte del comune cittadino, ma anche da parte di leader politici (alcuni, in particolare, affiliati e leader di partiti di destra ed estrema destra militante) (3).

Posizioni che vennero mantenute quando il presunto colpevole venne fotografato bendato e legato dai carabinieri, ma che supportarono ancora indiscriminatamente qualsiasi agire, purché volto alla risoluzione di un crimine, senza nessun cenno di critica né tanto meno di riflessione su quanto ciò possa danneggiare la struttura democratica, che si poggia sulla sanità del suo sistema giudiziario e di sicurezza. Una ripresa del concetto classico del “Il fine giustifica i mezzi”, frase in questa forma mai affermata da Machiavelli nel suo “Il Principe”, ma che rende il concetto. Non conta che ciò che viene fatto sia illegale o sbagliato, basta che il colpevole venga portato alla sbarra (e per qualcuno, come il conduttore Bruno Vespa, anche alla forca).

È un retrocedere delle coscienze verso un’epoca più buia della ragione umana, in cui l’uso della violenza viene teso come soluzione ai mali, anche quando soluzione non è. Ciò ci spinge a riflettere, nonostante sia già stato ampiamente fatto, su quale sia il senso della pena della morte, di come sia stata affrontata in Italia e in Europa e di quali siano le sue ragioni d’essere in un mondo considerato avanzato, all’alba degli anni ’20 del XXI secolo.

Pena di morte e scopo

Abbiamo anticipato cosa sia la pena di morte nella sua accezione contemporanea. Storicamente parlando, più volte la morte è stata inflitta come strumento di pena e punizione. Nell’Antica Roma i cristiani venivano condannati al martirio, così come i cristiani punivano con la morte per fuoco le presunte streghe durante le loro cacce. Il tradimento, all’interno di quasi tutti i paesi del mondo, è stato spesso condannato con la pena capitale e lo è ancora oggi in parte (Blaskovich e Simon, 2007).

Le tre principali religioni semitiche (Giudaismo, Cristianesimo e Islam) prevedono o prevedevano nei loro codici l’uso della pena di morte per la punizione di crimini particolari (Blaskovich e Simon, 2007). Nel caso del giudaismo, per esempio, sono previsti tre tipi diversi di pena capitale: decapitazione, lapidazione e infine la morte per rogo. In questo caso, la pena di morte veniva idealizzata come la giusta contrapposizione per quei crimini che andavano contro la legge di Dio (in questo caso, i testi sacri). Basandosi sull’idea che la pena doveva essere espiativa, fare da deterrente ed essere un ripago del crimine connesso. Un crimine contro la divinità poteva in tal senso essere punito solo con la propria vita, sacro contro sacro. Anche nell’Islam e nella religione cristiana vi è la presenza della morte come strumento utile al controllo sociale, perché, di fatto, le cause ideologiche finiscono per convergere sul tema del controllo della società tramite l’imposizione della morte, della terminazione assoluta.

Weber ha messo in risalto come uno Stato sia tale solo quando riesce a monopolizzare la violenza al suo interno, esserne ultimo amministratore (Weber, 1918). Tale uso della violenza, viene però messo in rilievo dal sociologo tedesco, non ha nulla a che vedere con l’amministrazione della morte. Di per sé, il controllo della violenza di stato è uno strumento di controllo che deve rappresentare la sicurezza, non la perdita della vita.

Dal punto di vista storico si potrebbe dire moltissimo, altro sarà detto successivamente in particolare sul caso italiano e sulle idee che Cesare Beccaria ha esposto nella sua opera “Dei delitti e delle pene”, di filosofica derivazione utilitaristica e ancora oggi una pietra miliare negli studi del campo. Se la pena di morte è però considerabile uno strumento di controllo, è essa davvero efficiente?

Uno studio finanziato dal Dipartimento di Giustizia americano e condotto in collaborazione tra diversi studiosi della Columbia University, sembrerebbe indicare che di efficienza è davvero difficile parlare. Nel rapporto, disponibile online, si cita testualmente (e riportiamo per intero) che “The evidence in this study points in the same direction. Specifically, we found that rates of reversible error of 50% or more across nearly all states and years; deep-seated racial, political and other factors associated with that error; reviewing judges’ inability to catch serious error even when it has caused an innocent person to be convicted and condemned; political pressures on reviewing judges to approve flawed capital verdicts; and high reversal rates persisting through the final review stage, not the steadily shrinking rates of discovered error needed to instill confidence in the efficacy of the review process” (Fagan & al., 2002).

In una delle nazioni che si son fatte, più di altre, paladine della democrazia, l’uso della pena di morte piuttosto che essere un sostegno al sistema giudiziario, se n’è dimostrato una grossa pecca. Per motivi di spazio è impossibile parlare di tutto il rapporto, ma gli studiosi mettono in luce come non solo le problematiche classiche del sistema giudiziario rischiano di mettere in atto pene capitali contro innocenti, ma che delle vere e proprie falle nel sistema giudiziario, come una sovra-esposizione al rischio di certune comunità (in particolari minoranze etniche e religiose), e una opinione pubblica e politica che, in particolare nei casi violenti, tende a fare pressioni sui giudizi e sulle procure, rischiano di creare pericolosi bias di opinione e quindi di giudizio, con la conseguenza di portare innocenti al braccio della morte. Ricordando che l’intero sistema giuridico contemporaneo occidentale si basa sull’idea che nessuno è colpevole, se non confrontato con prove assolutamente e contrarie, è facile desumere come ciò sia un pericolo gravissimo per l’integrità di tutto il sistema di gestione della giustizia pubblica.

Se nemmeno negli Stati Uniti, una democrazia tra le più antiche e stabili, la pena di morte riesce a raggiungere il suo scopo, diventa manifesto che se lo scopo dell’uccidere il criminale è reprimere, controllare ed evitare la reiterazione di tali crimini da altri in futuro, questo obiettivo è assolutamente mancato.

Ne rimane che la pena di morte è l’atto finale di una vendetta sociale che viene imposta sopra un condannato. La scure, nemmeno metaforica, che trancia una vita in nome della “pax sociale” come vorrebbe essere auspicata dai più. Una pax che però questa scure non supporta, ma piuttosto tende a rendere sempre più distante questo scopo. Ci si ritornerà nelle conclusioni finali.

È importante, come verrà tra poco messo in rilievo analizzando il caso della giustizia italiana e dell’approccio europeo alla pena di morte, come la posizione dominante fino a poco fa sia stato di supporto a pratiche alternative alla morte, come la detenzione a vita o temporanea. Ciò nonostante nel discorso pubblico la pena di morte sta tornando in auge.

Abbiamo accennato che, nel caso di crimini particolarmente odiosi, accada spesso che i commentatori, professionisti e non, tendano ad incitare all’uso della violenza contro i presunti perpetratori, al di là della colpevolezza o meno. L’uso di violenza verbale è indicativo dell’era dei social media. Quello che negli Stati Uniti viene definito come “hate speech”, discorso d’odio, sta incontrando una sempre maggiore diffusione. Nel suo lavoro Schauer (1992) ha ampiamente descritto il dibattito sorto poco meno di trent’anni fa intorno il medesimo problema, quanto mai attuale. Non possiamo seguire la sua ipotesi che il motivo del maggior numero di “hate speeches” sia la presenza di una maggior denuncia in merito, essendo di per sé i social pubblici. Non c’è bisogno di una denuncia per poter leggere alcuni abominevoli commenti disponibili online e spesso messi in risalto proprio da pagine, su Twitter, Facebook ed Instagram, devote a mettere in risalto questo problema. È possibile però seguire la doppia ipotesi che, da un lato vi sia una maggior diffusione di una forma molto violenta di linguaggio nel discorso politico e quindi, a cascata, in quello pubblico; l’altra teoria che Schauer presenta nel suo lavoro sia che tutta l’opera di rendere pari le condizioni delle minoranze e della maggioranza provochi in quest’ultima una forma di opposizione, anche violenta.

Quest’ultima teoria non si applica esattamente al caso della pena di morte, ma possiamo teorizzare che un momento di elevata crisi economica e sociale, in cui il tessuto classico delle diverse forme di organizzazione economica e non risultano ampiamente danneggiate, possano star provocando una reazione violenta verso coloro che possono diventare i capri espiatori dei problemi nazionali. Un sistema, quello della diffusione di colpa, che non è nuovo di certo né all’Italia, né all’Europa. L’identificazione di un nemico pubblico, che sia il traditore o il diverso, è stato ampiamente sfruttato da regimi, democratici e non, nell’arco del tempo. Fa parte di un processo di semplificazione dei problemi che ben si avvicina alla nuova codifica del linguaggio social, che deve essere breve e incisivo e che ben si sposa con queste semplificazioni logiche e causali. Un post di Facebook deve essere tendenzialmente, per colpire l’immaginario, poche righe ed una foto ad effetto.

La pena di morte, in parte, si collega molto a questo processo di semplificazione messo in luce da Umberto Eco e molti altri (4). La retorica comune, su cui altri hanno già parlato, è che il sistema giudiziario, almeno in Italia ma è un sentimento largamente diffuso, sia molto debole, spesso troppo garantista, incapace di garantire quella sicurezza che la società si aspetta da esso. La presenza di queste falle e alcuni casi eclatanti che, gonfiati dai mass media, ne mettono in risalto le presunte debolezze, al di là dei dettagli dei singoli casi che, logicamente, potrebbero spiegare certi iter giudiziari, spingono le persone a richiedere sempre di più durezza e responsività da parte sia dei giudizi che delle forze dell’ordine (Fagal & al., 2002). La forma di espressione di tale linguaggio esplode, più che mai, sui social media contemporanei, bacino dell’eco della voce di chiunque abbia accesso ad Internet via cellulare o computer. La pena di morte rientra perfettamente in questa semplificazione. Offre la soluzione a crimini odiosi come stupri e omicidi, in particolare contro le vittime percepite come le più vulnerabili (quali anziani e bambini o ragazze), dando quella “ricompensa” alla società per il danno subito. Sono discorsi che fanno leva sull’emotività del momento, sulla spinta dell’ira e della comprensibile rabbia. È in continuità e in rottura con quella tipologia di pena e punizione che abbiamo visto scaturire dalle religioni semitiche e dalle loro vicine prima citate: un pareggio dei conti proporzionali.

Il problema che la società contemporanea si sta trovando però ora dinanzi è a cosa può equivalere tale pareggio. Per gli Illuministi francesi, sulla cui scia poi pensatori come Beccaria hanno avanzato le loro proposte di riforma del sistema giudiziario, la sacralità della vita andava conservata e un altro tipo di pagamento andava richiesto alle persone, in tempo e sforzo fisico. Tale calcolo, anche pragmatico, sembra aver smesso di avere effetto.

L’Italia e la pena di morte

Non si può parlare di pena di morte in Italia, in particolare, se non parlando di chi, già nel ‘700, ne aveva criticato l’utilità, ovvero Cesare Beccaria. Nella sua celebre opera “Dei delitti e delle pene”, che nel 1766 fu inserita nell’indice dei libri proibiti della Chiesa Cattolica per la sua distinzione tra reato e peccato, il Beccaria dimostra come questa sia utile soltanto ai fini di una spettacolarizzazione della giustizia, divenendo «oggetto di compassione mista di sdegno per alcuni» (5). Le argomentazioni utilizzate dal Beccaria sono tutte di carattere “utilitaristico” ovvero «non propone alcun argomento teorico o filosofico contro la pena di morte» (6). Le argomentazioni sono sostanzialmente due: da un lato il Beccaria nega l’efficacia preventiva della pena di morte nei confronti della commissione di delitti in quanto, seguendo le orme lasciate dalla storia, «l’ultimo supplicio non ha mai distolti gli uomini determinati dall’offendere la società» (7); dall’altro, si pone nell’ottica di uno Stato che, attraverso la legge, ordina ai propri cittadini di non uccidersi tra loro, ma che poi ordina l’assassinio come pena a seguito di un omicidio, dimostrando la contraddizione esistente già all’interno dello stesso concetto di pena di morte. Inoltre, con riferimento al primo profilo, ovvero all’efficacia deterrente, il Beccaria sottolinea come gli individui siano maggiormente intimoriti dalle sofferenze che nascono da quella che lui chiama “schiavitù perpetua”, che oggi chiameremmo ergastolo e di cui da tempo si discute della legittimità costituzionale in vista della finalità rieducativa della pena ex art. 27 co. 3 Cost. Il Beccaria sa benissimo che gli uomini potrebbero risultare meno colpiti da un evento spettacolare come la morte pubblica di una persona, che di per sé è un evento istantaneo, rispetto ad eventi meno drammatici ma più intensi e duraturi come la carcerazione a vita, infatti «questo è il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa più chi la vede che chi la soffre» (8). Tuttavia, il Beccaria non bandisce del tutto la possibilità di una pena capitale, la quale, secondo lui, merita di sopravvivere quando il reo abbia un potere tale da attentare alla libertà e alla stessa Nazione. Pur guardando il tutto da un punto di vista utilitaristico, il Beccaria pone un coperchio al barattolo della pena di morte, le cui idee hanno portato lentamente alla sua abolizione in tutto il continente, nonostante qualche resistenza ancora oggi. Tuttavia, da questo momento in poi ha avuto inizio la progressiva eliminazione della pena di morte. Il primo in Italia fu il Granducato di Toscana guidato da Pietro Leopoldo «il quale, abolite del tutto le forche, nella sua Leopoldina del 1786, pone come «ultimo supplizio» la pena dei lavori pubblici a vita per gli uomini e l’ergastolo a vita per le donne» (9). Il percorso che portò alla totale abolizione si concluse con il Codice Zanardelli anche se percorso, e il dibattito che ne seguì, non fu di certo semplice (10). Entrato in vigore il codice, che sostituiva la pena di morte con la pena perpetua, fu proprio quest’ultima nuovo oggetto di critiche e polemiche. L’ergastolo cominciò ad essere considerato un vero e proprio supplizio dove il malcapitato, oltre ai lavori prima singoli e poi collettivi in apposita struttura, era considerato in stato di interdizione perpetua dai pubblici uffici che consiste in una serie di misure che comportano la perdita di ogni diritto politico (sia attivo che passivo), gradi ed onorificenze. Inoltre, il detenuto era considerato in stato di interdizione legale con la conseguente perdita di ogni podestà, autorità maritale e della capacità testamentaria, rendendo nullo il testamento fatto in tempo precedente alla condanna. Ma all’alba del nuovo secolo nuove esigenze e poteri scossero l’Italia. L’avvento del partito fascista capitanato da Mussolini con la conseguente e autoritaria presa di potere mescolarono nuovamente le carte in tavola. Dopo gli attentati al Duce forte fu l’esigenza di rafforzare la sicurezza della nazione attraverso il ricorso a sanzioni severe, come appunto la pena di morte. Sicurezza della nazione, non degli individui. Con il pensiero fascista, per mano dei fratelli Rocco, l’ideale Kantiano della società come mezzo e l’individuo come fine viene totalmente capovolto: la società è superiore agli individui che a questa sono totalmente asserviti. Come scrisse Giuseppe Bottai in Critica Fascista di cui era il fondatore: «ogni disquisizione teorica è inutile. L’ombra di Beccaria non ci turba. La pena di morte miete teste e strozza gole nei paesi più democratici del mondo. La democrazia non c’entra. E non c’entra nemmeno il progresso, la civiltà moderna, l’umanità etc. etc.». D’altronde Arturo si chiede: «perché mai la coscienza sociale dovrebbe turbarsi di fronte al necessario sacrificio della vita dei delinquenti, se essa non si turba di fronte al sacrificio della vita degli uomini onesti?». Il riferimento in questo caso è alla guerra, considerata l’esempio perfetto per trasmettere la propria ideologia: i soldati, totalmente al servizio della Nazione, donano anche la propria vita, perché preoccuparsi della vita di chi delinque? Nell’ideologia del Rocco si rivedono tratti di un’antica distinzione, prospettata da autori quali Fioretti, tra uomini onesti (come i soldati o le persone aggredite) e i delinquenti, dove i primi devono beneficiare sempre della protezione della legge e i secondi subirne tutte le conseguenze negative. A prescindere dai dubbi che emergono da questa distinzione, e in particolare in relazione all’individuazione dei cittadini onesti i quali a parer mio non si distinguono di certo per il sol fatto di essere aggrediti o aggressori, dalle parole del Rocco emerge un totale disprezzo per la vita umana e soprattutto quella dei delinquenti. L’obiettivo era uno soltanto: reprimere la criminalità, e in particolare crimini particolarmente gravi attraverso la prevenzione generale causata dalla pena di morte quale pena esemplare e spettacolare, e «la prevenzione speciale, con la definitiva eliminazione del delinquente» (11). Così arriviamo al 1946, anno di nascita della Repubblica dove si posero le basi per la nuova costituzione, la quale entrò in vigore nel 1948 e si fece portatrice di nuove istanze, come appunto la salvaguardia della vita umana. A tale scopo, l’art. 27 co. 4 prevedeva, nella sua formulazione originaria, che «[n]on e’ ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra». Il tragitto che ha condotto a questa formulazione non è stato affatto facile. Il tutto ebbe inizio nella “Prima Sottocommissione” della commissione costituente incaricata della discussione relativa ai principi sui rapporti civili. In loco, il dibattito riguardò soprattutto la seconda parte dell’articolo, ovvero la permanenza della pena di morte se prevista dalle leggi di guerra. Infatti, se da un lato l’unanimità sosteneva la sua eliminazione quale pena, non tutti ne erano convinti nel caso di guerra. In una delle sedute in cui si discuteva proprio della portata dell’art. 27 infatti, da un lato i vari Giovanni Lombardi, Pietro Mancini e Giorgio La Pira avrebbero gradito una rimozione senza alcuna eccezione della pena di morte e dove lo stesso On. La Pira, sostenendo la proposta di Mancini, affermò che: «quando esiste lo stato di guerra, vi è anche uno stato di emergenza giuridica in cui vengono soppresse anche le garanzie costituzionali. Pertanto, è forse meglio affermare decisamente che la pena di morte non è ammessa» (12). D’altro lato vi era chi come Palmiro Togliatti decise di opporsi alla proposta «perché vi possono essere delle guerre giuste che si devono combattere, ed allora, in caso di una guerra, è necessario che la pena di morte sia prevista» (13). In una delle successive riunioni della Commissione per la Costituzione fu presentato un emendamento tendente al mantenimento della pena di morte non solo nei casi previsti dai codici militari di guerra, ma anche (eccezionalmente) nel caso «di reati comuni nei casi di omicidi efferati che sollevino la pubblica indignazione» (14). La proposta era firmata dagli On. Nobile e Terracini e molto interessante fu la risposta che diede l’On. Paolo Rossi, dichiarandosi contrario all’emendamento. L’On. Rossi fece notare che la questione della pena di morte in Italia è una questione passionale e sentimentale rispetto ad altri paesi e che questa, già prima della costituente, fu già abolita ma poi reintrodotta in tutti i momenti in cui le libertà acquisite dal popolo cominciavano a sgretolarsi o restringersi. Questo fu il caso del 1922 «quando la nascente democrazia italiana fu sommersa dalle bande fasciste, una delle prime leggi con carattere nettamente, squisitamente politico fu la restaurazione della pena di morte, prima limitata ai delitti politici e, quindi, estesa anche ai delitti comuni» (15). Inoltre, secondo l’Onorevole, la prima carta costituzionale repubblicana non poteva avere una simile reminiscenza del passato. Infine, ne criticò non solo l’estensione ai delitti particolarmente feroci e che suscitano indignazione perché proprio in questi casi maggiore è il rischio di errori giudiziari e alto è il rischio di bruciare vite umane innocenti, ma ne criticò anche la scarsa efficacia preventiva proprio come fece Beccaria a suo tempo. Ma alla fine della fiera, l’eccezione conservatrice della pena di morte, in caso fosse prevista dalle leggi militari, rimase. Tuttavia, il richiamo alle leggi militari di guerra andava inteso sempre alla stregua di una situazione eccezionale che avrebbe comunque richiesto un effettivo stato di guerra nonostante la generica previsione dell’art. 27. Tuttavia, il legislatore nel 2007 ha deciso di eliminare qualsiasi dubbio attraverso la totale soppressione delle parole «se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra», decidendo dunque di fare un passo avanti. Non va poi dimenticato che accanto alla previsione costituzionale dell’art. 27 co. 4 l’Italia ha aderito nel 1955 alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), la quale si fa portatrice di istanze che tutelano l’essere umano in toto, comprendendo principalmente il diritto alla vita all’art. 2 e il divieto di istituire la pena di morte nel protocollo n. 6 del 1983, con l’eccezionale possibilità di mantenerla in tempo di guerra. Colgo poi l’occasione per ricordare che le norme pattizie entrano all’interno del nostro ordinamento con il rango di norme interposte, ovvero norme che hanno una particolare resistenza all’abrogazione da parte di legge ordinaria ma che non possono derogare alla costituzione (16). Più di recente, però il protocollo n. 13 del 2002, essendo ancor più consapevole della sacralità della vita umana e che il protocollo n. 6 non esclude la pena di morte per atti commessi in tempo di guerra, abolisce la pena di morte senza alcuna eccezione.

L’Unione Europea e la pena capitale

Come messo in rilievo precedentemente, la Convenzione Europea per la Salvaguardia dei diritti dell’Uomo del 1955 mette in rilievo il divieto di istituire la pena di morte e il diritto alla vita di ogni soggetto. I paesi europei, con le loro storie, anche politiche, molto diversificate, hanno attraversato in tempi diversi il processo che li ha portati ad abolire la pena di morte. Ad oggi, nel continente solo Russia e Bielorussia la prevedono nei loro ordinamenti giuridici.

Una infografica messa a disposizione dal Parlamento Europeo mostra i diversi tempi in cui le nazioni europee hanno non solo messo al bando la pena di morte, ma anche punito qualcuno con tale strumento. Il primo paese è il Portogallo, che nel 1849 ha emesso la sua ultima sentenza, il primo, seguito dalla Svezia nel 1910 (17). Ovviamente, una rapida occhiata alla mappa ci permette di seguire gli sviluppi anche proprio dei paesi europei. La Spagna fa la sua ultima pena capitale nel 1975, alla fine del regime franchista, abolendola venti anni dopo. I paesi dell’area balcanica e baltica arrivano a terminarle intorno gli anni ’80 e ’90, in ritardo rispetto al resto del continente.

È stata lunga la lotta, anche culturale, che ha portato alla lotta contro la pena capitale, strumento largamente diffuso fin dall’alba dei tempi. Perfino nel periodo storico della Rivoluzione Francese, pur considerata come la base della contemporanea società occidentale, vi è stato un largo uso della ghigliottina (sia contro illustri come Luigi XVI che contro i meno illustri e comuni “nemici della rivoluzione) ad opera del movimento giacobino. Col tempo, man mano che i regimi assoluti e autoritari hanno lasciato spazio a più ampi margini di democratizzazione e giustizia in senso liberale, la pena di morte ha visto scemare la sua ampia diffusione.

Ad oggi, l’Europa si impegna attivamente nella lotta contro la pena di morte. Come messo in luce dal sito del Parlamento Europeo e da quello della Commissione, sono varie le iniziative che l’Unione ha preso in considerazione per stimolare un sempre minor uso di questo strumento.

Nella risoluzione dell’8 ottobre 2015 sulla pena di morte (2015/2869 RSP) il Parlamento ha espressamente condannato l’uso della pena di morte come strumento di soppressione di libertà e civili personali come l’orientamento religioso o sessuale, come strumento di lotta al traffico di stupefacenti e alla loro diffusione, nonché si propone di interagire con quelle nazioni ed enti che ancora la promuovono come strumento utile al controllo sociale (18). Una serie di misure che la portano ad interagire ampiamente con gli stati degli USA che hanno abolito o che stanno procedendo all’abolizione della pena di morte, ancora diffusa dentro il Nord America.

L’impegno dell’Unione, come messo in risalto dalla risoluzione appena citata, parte dal rispetto degli articoli della Carta dei diritti fondamentali europea, dalla Convenzione Europea per i Diritti Umani (ECHR), ma anche da accordi e risoluzioni internazionali come la convenzione ONU del 1984 contro la tortura e altre pratiche e pene inumane, degradanti e crudeli. È un impegno che prende a tutto tondo le attività dell’Unione, che fin dalla sua istituzione si fa portavoce di un avanzamento costante nel campo dei diritti sociali ed umani, compresi quelli dei prigionieri politici. L’Unione, legata a questi accordi e convenzioni, di cui è firmatarie, è riuscita a prolungare tale legislazione ai suoi paesi membri, in ogni circostanza possibile del codice giudiziario.

È rilevante mettere in luce che l’Unione si è impegnata nel bandire non solo la pena di morte dal proprio suolo, ma si è mossa anche nel fare pressing internazionale a favore di una generale restrizione sul suo uso. Come viene messo in risalto dal documento “The death penalty and the EU’s fight against it”, disponibile sul sito del Parlamento Europeo, l’Unione si è impegnata, seguendo le linee guida istituite ad hoc nel 1998 dalla Commissione Europea sulla pena di morte stessa, a fare advocacy a favore, in cause e processi ma anche nei dialoghi con altri enti e nazioni, di misure carcerarie alternative alla pena di morte e incoraggiando l’adesione alle normative internazionali che deliberano in tal settore.

Anche il ban commerciale rispetto gli strumenti di tortura o utili a infliggere la pena capitale ha avuto un suo grande effetto. Dopo aver proibito il traffico di sostanze letali, quelle usate nell’iniezione finale della pena capitale in alcuni stati USA, si è provocata la loro scarsità nel sistema penitenziario americano, rallentando molte delle pene capitali previste. Allo stesso tempo, l’UE finanzia con circa 22 milioni annui associazioni dedite al soccorso dei criminali all’interno dei bracci della morte e che fanno lobbying a favore della terminazione della pena di mote come strumento repressivo.

Conclusioni

Possiamo quindi ritornare al punto di inizio: a queste rivoluzioni normative, come anche evoluzioni all’interno della scienza giuridica ormai pienamente consapevole di una funzione non più semplicemente punitiva, ma rieducativa della pena, non ha mai fatto seguito per davvero l’evoluzione sociale in toto. Ad ogni fatto drammatico, come messo in rilievo precedentemente, segue sempre l’odio. Odio che tramite i social esplode e finisce per influenzare, coscientemente o meno, l’operato del sistema di sicurezza e giuridico.

La posizione di Beccaria e degli utilitaristi ha un valore fondamentale ancora oggi, forse più che mai oggi che si diffonde sempre di più una parzialità della pena. Non più una legge unica, anche fredda se necessario, ma comunque salda nel suo essere un chiaro monolite guida per la sua società, ma piuttosto guardiamo alla trasformazione della legge, nel mondo di quei social che secondo Eco han dato voci a “legioni di imbecilli”, che vorrebbero seguire i loro primordiali istinti nel dare pena, laddove si percepisce vi sia la colpa. Non presunzione di colpevolezza ma odio che lastrica la via per le barbarie che, nel corso dei secoli, hanno già ampiamente raccolto consensi e provocato disastri.

Se i sistemi occidentali, ma non solo, in particolar modo hanno cominciato e instaurato regimi giuridici senza la pena di morte (nemmeno tutti, pensando al caso USA), diventa necessaria anche una riforma della forma mentis comune riguardo ciò che è la pena. Il problema di fondo è più sociologico e psicologico che giuridico. La legislazione ha già raggiunto una sua soluzione, a livello italiano, nazionale ed europeo. Dal punto di vista legislativo e di advocacy tutti gli sforzi fattibili sono fatti, nonostante qualcuno ne vorrebbe di più in nome dell’idealismo (ma il pragmatismo della geopolitica non è ora centrale in questo lavoro, ivi non lo affronteremo qui). Il problema è invece strettamente legato alle riflessioni che stanno oramai influenzando anche l’apparato politico. Non si può sottovalutare più l’espressione social, bandendola come delle chiacchiere banali.

Il marketing politico parte, si esprime e lavora tramite i social, che hanno una pesante influenza nel modo in cui l’attore politico, in particolare quei nuovi attori che cavalcano le scene politiche senza progetti ideologici o costruiti a priori, ma piuttosto su un divenire costante che cambia con il cambio delle pagine del giornale. La presenza di attori così volatili non solo rende difficile il lavoro degli analisti, oramai incapaci di comprendere il mutamento delle direzioni di interi paesi soggetti a tweet e post Facebook, ma rende incostante anche il lavoro legislativo ed esecutivo, soggetto a cambiamenti continui di rotta.

La pena di morte, insieme ad altre pratiche barbariche che pur continuano ad essere invocate nei crimini più odiosi, devono rimanere al di fuori dei codici di legge penale. Non è pensabile fare un passo indietro su un tema così caro come la sacralità della vita umana. Il diritto di morte, se non quando espresso per l’ultima difesa, è un diritto del tutto individuale, non collettivo. Non viviamo più nelle società, sapientemente descritte da Durkheim nel “Il suicidio”, in cui era considerabile onorevole togliersi la vita per seguire un appeasement di tipo collettivistico. Gli stati contemporanei hanno superato ampiamente tale momento storico-culturale. La presenza di istintività ed emotività nel discorso pubblico è potenzialmente dannosa per questi avanzamenti ed è per questo che il problema della pena di morte andrà affrontato usando gli strumenti della sociologia e della psicologia, dal momento in cui il nuovo obiettivo non è più il cambiamento legislativo, ma piuttosto una lotta sul piano discorsivo, teorico ed etico della rilevanza della vita, anche delle persone colpevoli di crimini atroci.


1. Amnesty International, Contro la pena di morte (23/11/2019), https://www.amnesty.it/campagne/pena-di-morte/.

2. Institute Kurde de Paris, A 10-Minute Trial, a Death Sentence: Iraqi Justice for ISIS Suspects, 19 aprile 21019, https://www.institutkurde.org/info/a-10-minute-trial-a-death-sentence-iraqi-justice-for-isis-suspects-1232551366.

3. Falcini D., Destinazione pena di morte, 29 luglio 2019, Rolling Stones, https://www.rollingstone.it/politica/destinazione-pena-di-morte/471056/.

4. Per approfondimenti, “Semiotica e filosofia del Linguaggio”, di Umberto Eco, edito da Einaudi, 1997.

5. C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene (1764), Letteratura Italiana Einaudi, a cura di Renato Fabietti, Mursia, Milano, 1973, cit., pag. 71.

6. V. VITALE, Pena di morte: né utile né necessaria, in Il Dubbio, 22 Agosto 2017.

7. C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene (1764), Letteratura Italiana Einaudi, a cura di Renato Fabietti, Mursia, Milano, 1973, cit., pag. 70.

8. Ivi, pag. 72.

9. C. DANUSSO – PATIBOLO ED ERGASTOLO DALL’ITALIA LIBERALE AL FASCISMO, in Riv. Diritto Penale Contemporaneo, 4/2018, cit., pag. 52.

10. Per approfondimenti, Ibidem.

11. Ivi, cit., pag. 66.

12. Assemblea costituente, Prima Sottocommissione, Resoconto Sommario della seduta di giovedì 19 settembre 1946, cit. pag. 76.

13. Ibidem.

14. Commissione per la Costituzione, Resoconto Sommario della seduta pomeridiana di sabato 25 gennaio 1947, cit. pag. 187.

15. Ivi, cit., pag. 188.

16. Per approfondimenti Sent. Corte cost. n. 348 e 349 del 2007.

17. Parlamento Europeo, Death penalty: key facts about the situation in Europe and the rest of the world, https://www.europarl.europa.eu/news/en/headlines/world/20190212STO25910/death-penalty-in-europe-and-the-rest-of-the-world-key-facts.

18. Parlamento Europeo, European Parliament resolution of 8 October 2015 on the death penalty, http://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-8-2015-0348_EN.html?redirect.

Fonte immagine: Wikipedia.

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