Perché parlare di queste due notizie, in apparenza per niente legate, e in apparenza minori nel panorama politico e mondiale? Perché di fatto sono davvero lo specchio più urgente di due delle grandi crisi che affliggono il pianeta: da un lato quella climatica, dall’altro la sempre più marcata distanza tra ceti ricchi e ceti poveri, in cui mezzo va a trovarsi la polvere. Ironia della sorte, le due crisi che più di tutte andranno a impattare sulla vita dei giovani e del futuro di quel che resta del pianeta un tempo Perla Blu del sistema solare.
Flavio Briatore ha messo in campo nei suoi ristoranti per ultra-ricchi pizze che valgono più o meno quanto un manuale di statistica, o un gioco tripla AAA, o dieci margherite a Benevento. La reazione del web è stata di scherno. Briatore ha reagito attaccando chi la pizza la fa a molto meno – come a Benevento, ma questo non è un invito al turismo culinario nel meridione d’Italia – accusandoli di fantomatiche violazioni meritevoli di controlli della Guardia di Finanza e delle autorità sanitarie.
Fa sorridere certo chi ha convertito un piatto originariamente povero, al netto delle sue varianti cracchiane e delicate, accusare chi mantiene le tradizionali ricette come traditori del piatto stesso. Si cela qui il primo scollamento dalla realtà di cui parlavamo prima: quello tra un ceto ultra-ricco, che si vizia con pizze a sessantacinque euro, e una realtà fenomenica e sociale che non può che reagire con sdegno.
Perché forse la pizza di Briatore può fare sorridere, ma gli indici sulla povertà no. Ed è vero che l’Italia è arrivata a cinque milioni di poveri in assoluto, complici il conflitto in Ucraina certamente, ma anche una mancanza strumentale di una classe imprenditoriale capace di innovare. Un paese stagnante, in un periodo di crisi, è incapace di manovrare in acque torbide, come una nave che ha deciso di usare le sue vele per fare bei merletti per i tavoli degli ufficiali superiori. Roba da ammutinamento del Bounty.
La rabbia sociale che traspare nell’attacco verso Briatore e le sue ricche “prelibatezze” è lo specchio di quella stessa rabbia che non trova sfogo in altro modo che nell’attacco tanto a Briatore che ai tanti imprenditori del “non trovo personale”. La retorica passivista e allarmista dell’italiano sfaticato e non, spesso ma non sempre, dell’imprenditore abituato allo sfruttamento.
Il mondo è cambiato, e qualcuno ci è definitivamente volato via, non per Marte ancora, ma per realtà immaginarie in cui siamo ancora negli anni ’60, tutto è possibile con la dura fatica e semplicemente la gavetta di oggi fa l’imprenditore di domani. Ma non c’è boom economico, anzi. Lo scoraggiamento dei giovani è emblematico. L’impossibilità di uscire di casa spesso prima dei trent’anni a causa della cronica mancanza di contratti a tempo indeterminato, o almeno a determinato, rendono impossibile la progettazione del futuro. Il che vuol dire calo delle nascite, che si ricollega al tragico problema del pagamento delle pensioni, in particolari di quelli che i boom economici li hanno cavalcati.
I mancati investimenti di ieri si fanno sentire oggi.
E questo si lega, non di meno, al secondo problema: la crisi climatica. Quella che spinge persone a come il direttore del WWF Italia ad affermare, di fatto, che il razionamento delle riserve idriche private non è più qualcosa di folle, ma una normalità a cui forse lentamente dovremo andare affrontando. Perché il Po si è letteralmente prosciugato, e non stiamo parlando dei torrenti di campagna, ma del Po. Parliamo di una arteria fondamentale per l’agricoltura nella Pianura Padana e per la produzione di quell’energia che continuiamo a cercare di rendere rinnovabile. Se l’idrico è una delle fonti rinnovabili, lo stiamo lentamente perdendo.
Non meno rilevante è lo scollamento di chi, Fulco Pratesi, lo prende in giro. Come se fosse impossibile pensare che sia da razionare l’acqua, da dover ridurre il numero di docce o di lavatrici fatte. Perché non è pensabile che ci siano conseguenze tali. Eppure, nel metaforico sud del mondo, queste sono realtà ormai da decenni. Era lontano il problema, era qualcosa di cui ci si accorgeva durante le poche emergenze caldo, quei brevi trafiletti di notizia che apparivano in TV o al giornale.
Non sono più trafiletti, sono libri – di economisti, geologi, politologi, climatologi, biologi – che continuano a cercare di pressare il mondo, soprattutto politico ma anche socioeconomico, che le conseguenze di quella crisi climatica che appare così uno spauracchio – ma che poi arriva a chiedere il conto – è qui. Che il caldo insopportabile di Roma non è un’emergenza stagionale, ma può diventare una brutale realtà anche per la Capitale. Che lo sfruttamento eccessivo delle riserve idriche (problema non esclusovi taliano, se consola) e il mancato mantenimento di un’efficiente distribuzione dell’acqua nel paese, stanno incidendo non poco su un paese che il cambiamento climatico, come la Spagna, la Grecia e gli altri ospiti del vecchio clima mite mediterraneo, subiranno in pieno.
Consola poco sapere di non essere soli in questa disgrazia. Consola poco rendersi conto che però rimane alta l’indifferenza al problema, nel momento in cui si reagisce con mero scherno, sia alle differenze di classe sempre più spropositate che alla crisi ambientale che, come un pendolo, sta ticchettando alle porte del pianeta, e oramai non mancano ore, ma minuti allo scoccare della mezzanotte.
Per alcuni, nella realtà, è oramai anche inevitabile.
Come direbbe un vecchio libro di fantascienza, Don’t Panic – non citerò, chi capirà, capirà. Forse la sveglia non saranno alieni-burocratici che vanno creando nuove autostrade spaziali. Forse la sveglia saranno proprio quei cinque milioni di poveri assoluti e la necessità di affrontare la non-remota possibilità di trasformare le colline sannite in ottimi luoghi per Safari insieme a Hemingway e soci.
Non suonerà di certo strano affermare che, nella realtà, l’unico modo per affrontare questi due problemi è soprattutto con forme nuove di cooperazione internazionale, e di cooperazione soprattutto europea. Perché il cambiamento, che non è sempre istantaneo, avviene tramite, e soprattutto, grazie a investimenti programmati a lungo termine.
Se non ce la fa un governo italiano, forse un piano europeo può fare quella differenza che ci aspettiamo. Molte speranze sono riposte all’interno del PNRR e del Recovery Plan, ma un cospicuo ingetto di moneta a cascata è funzionale solo nel momento in cui si trasforma in concrete azioni, come Keynes e il suo New Deal hanno insegnato in maniera efficiente molte decadi fa.
I pilastri identificati nella strategia nazionale ed europea sono potenzialmente i cavalli giusti si cui scommettere. Digitalizzazione, innovazione, politiche giovanili, sono tasselli fondamentali per lo sviluppo di quel set di competenze e di abilità necessarie a generare l’industria, l’artigianato, l’economia e la cultura del futuro.
Rimane però quel dubbio che i Briatore sparpagliati per il Bel Paese continueranno a reagire con la stessa, solita logica del “bisogna fare gavetta”, in un mondo in cui giovani ultra-competenti devono consegnare pizze a domicilio perché il fondo mensile vada a quadrare in verde e non in rosso. È inutile una politica di investimenti laddove chi quegli investimenti potrebbe usarli – gli imprenditori – tendono alla reazione con logiche stantie, eccetto pochi casi virtuosi.
C’è bisogno di un radicale cambio di marcia nell’imprenditoria italiana, ma anche nel suo più stretto tessuto. Avvertimenti come quelli di Pratesi non devono incontrare lo scherno, ma essere spunto di riflessione su cosa il cambiamento climatico potrà significare per il paese. Pizze come quelle di Briatore devono diventare, al contrario, non momenti di dibattito ma un ottimo spunto per i meme, per lo più. Le priorità del paese devono cambiare, così come il senso di separazione dai grandi problemi che l’affliggono e che rendono apatica una popolazione che, eppure, nei grandi momenti di crisi del passato ha saputo come reagire.
L’Unione Europea, da federalisti, è di certo un profondo spunto di azione e di investimento, ma non ci può essere Unione – e di seguito Federazione – con l’apatia. C’è bisogno di movimento, di distacco dal passato, di rottura se necessario. C’è bisogno di rivoluzione, gentile e si spera non armata, per tornare a far ruotare gli assi del paese in sincronia con il resto del continente.
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