Sulla memoria storica dell’Europa

, di Antonio Longo

Sulla memoria storica dell'Europa

La risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 (con 535 voti a favore e 66 contrari) sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa (2019/2819(RSP)) ha suscitato un controverso dibattito, specialmente sui social media.

Cercare di definire una memoria collettiva europea è certamente cosa della massima importanza, specialmente nel momento in cui l’Unione europea ha un impellente bisogno di caratterizzarsi come un’area politica di valori comuni e riconosciuti dalla grande maggioranza dei suoi cittadini. Ancor più nel momento in cui l’Unione, superata la fase più difficile dopo un decennio di crisi economica, si appresta a fronteggiare questioni globali impellenti: lo sviluppo sostenibile, l’immigrazione, la sicurezza e, in senso più generale, la definizione del proprio ruolo in un mondo sì globalizzato, ma anche privo di un orientamento comune.

Per avere un ruolo l’Unione deve fare politiche mondiali, pensabili e realizzabili se dispone di strumenti adeguati (risorse e istituzioni). Ancor prima, l’Europa deve sapere a quale sistema di valori queste politiche sono riconducibili, a maggior ragione se l’Unione non ha ancora un assetto politico-istituzionale del tutto consolidato.

È giusto, dunque, in linea di principio, cercare di definire la “memoria storica” dell’Europa, il sedimento e l’humus culturale e politico che consente di definire i valori comuni e, in ultima istanza, le politiche da intraprendere sulla base di questi valori.

La risoluzione del Parlamento europeo ricorda correttamente l’art. 2 del Trattato di Lisbona in cui si stabilisce che “l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze”. Questi valori sono comuni a tutti gli Stati membri e, di recente, anche la Presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, ha richiamato l’art. 2 del TdL, i cui valori costituiscono la base dello “stile di vita degli Europei”.

Circa la “memoria storica” la Risoluzione del Parlamento europeo ricorda che “l’integrazione europea è stata una risposta alle sofferenze inflitte da due guerre mondiali e dalla tirannia nazista, che ha portato all’Olocausto, e all’espansione dei regimi comunisti totalitari e antidemocratici nell’Europa centrale e orientale, nonché un mezzo per superare profonde divisioni e ostilità in Europa attraverso la cooperazione e l’integrazione, ponendo fine alle guerre e garantendo la democrazia sul continente; che per i paesi europei, che hanno sofferto a causa dell’occupazione sovietica e delle dittature comuniste, l’allargamento dell’UE, iniziato nel 2004, rappresenta un ritorno alla famiglia europea alla quale appartengono”.

E che, di conseguenza “la memoria delle vittime dei regimi totalitari e autoritari, il riconoscimento del retaggio europeo comune dei crimini commessi dalla dittatura comunista, nazista e di altro tipo, nonché la sensibilizzazione a tale riguardo, sono di vitale importanza per l’unità dell’Europa e dei suoi cittadini e per costruire la resilienza europea alle moderne minacce esterne”.

Molti commentatori hanno visto in questa equiparazione tra il regime nazista e quello comunista un’inaccettabile interpretazione della storia, resa anche superficiale dal considerare – come si fa ripetutamente nella Risoluzione – il Patto Molotov / Ribbentrop (23 agosto 1939) come il fatto che “ha spianato la strada allo scoppio della Seconda guerra mondiale”. Se si vuole restare ai semplici fatti, si potrebbe obiettare che anche il comportamento delle democrazie occidentali che assistettero impotenti all’escalation hitleriana (la c.d. politica dell’appeasement, accondiscendenza, accomodamento), fino ad avallarla con la Conferenza di Monaco, (30 settembre 1938, un anno prima del famigerato Patto citato) venne pure considerato dagli storici un atto che aprì la via alla Seconda guerra mondiale. In realtà, la causa delle guerre non sta in un episodio e neppure in una loro concatenazione: questi sono i “fatti occasionali” che possono mettere i rapporti tra gli Stati lungo un piano inclinato che poi li porta alla guerra.

Secondo il pensiero federalista – da Kant in poi - la radice profonda della guerra sta nella sovranità assoluta degli Stati. Ciò significa che i loro rapporti sono basati, in ultima istanza, sulla forza, che essi obbediscono alla regola della ‘ragion di Stato’ che li porta ad estendere il proprio potere all’esterno e a concentrarlo all’interno per potersi meglio difendere, in un contesto internazionale in cui tutti gli Stati – a prescindere dal regime politico interno che li regge, hanno il problema del mantenimento della propria posizione di potere nel mondo. Non riconoscendo dunque un’istituzione politica ad essi superiore, gli Stati hanno dunque il potere reale di farsi la guerra, di usare cioè la forza per dirimere i loro contrasti, qualora ritengano che non vi sia altra via per dirimerli.

Con l’avvio del processo di unificazione europea gli Stati europei hanno iniziato a superare il concetto di sovranità assoluta, cedendone quote alle istituzioni europee che hanno costituito. Hanno così creato una nuova ‘rivoluzione’, trasformando i loro rapporti e basandoli su istituzioni e regole comuni. Rapporti basati sul diritto, anziché sulla violenza, per dirla con Kant.

Alla luce di questa impostazione appare grave il limite teorico presente nella risoluzione di un Parlamento che nasce proprio come frutto del superamento della sovranità assoluta degli stati.

Non riconoscere il fondamento della propria origine (l’unità europea come il superamento della sovranità assoluta dello stato-nazione) fa sì che la ‘memoria storica europea’ sia debole, perché non evidenzia la discontinuità tra il vecchio ordine degli stati europei, basato sulla politica di potenza (caratteristica che accomuna sia gli stati democratici sia quelli totalitari), e il nuovo ordine, basato sul diritto garantito dalle istituzioni comuni.

Esiste poi un secondo limite, che deriva dal primo.

Molte critiche si sono limitate a evidenziare le differenze valoriali tra nazismo e comunismo (cosa ovviamente vera), come pure i percorsi diversi delle due ideologie. Da una parte, c’era l’idea di un ordine nuovo internazionale basato sulla superiorità razziale di un popolo che avrebbe creato l’uomo ‘nuovo’; dall’altra c’era la “tensione verso la liberazione di uomini e donne oppressi, umiliati, ridotti in condizioni di miseria o schiavitù …e che poi prende altre strade, diventa oppressivo e violento, minacciando libertà e possibilità di riscatto nei tanti angoli del mondo dove viene edificato”*.

Queste critiche (pur corrette) restano comunque al di sotto del tema della ‘memoria storica’ per gli Europei. Per la risoluzione del Parlamento europeo la memoria storica europea sta nel superamento di due regimi in egual modo oppressivi. Si potrebbe osservare che ciò corrisponde alla realtà fattuale per i popoli dell’Europa dell’Est che hanno subito una doppia occupazione e repressione delle loro libertà: prima quella nazista, poi per circa 40 anni quella sovietica. Diversa fu l’esperienza per i popoli occidentali che subirono solo quella nazista, mentre l’esperienza delle forze politiche che in Occidente si richiamarono al “comunismo” si inquadrò nello sviluppo del processo democratico di questi Paesi.

Questa differenza (non marginale) sta nella memoria europea e può essere superata solo se si individua, dal punto di vista teorico, la relazione che passa tra l’affermazione di un valore rispetto alla sua realizzazione concreta.

A tal fine, queste ci paiono le considerazioni essenziali.

1) Occorre distinguere tra l’affermazione storica dei valori e la loro realizzazione politica. Sono cose diverse. Dalla rivoluzione industriale in poi i valori europei sono stati il risultato della lotta di classi sociali che volevano affermare la propria emancipazione nello sviluppo del processo produttivo. Prima la grande borghesia manifatturiera, agraria e finanziaria, nella sua lotta contro l’assolutismo del sovrano, ha posto la centralità del valore della libertà. Successivamente, la piccola e media borghesia, nella sua lotta per un governo costituzionale ha posto quella del valore della democrazia. Infine, il proletariato, nella sua lotta per la costruzione dello Stato sociale ha posto quella del valore della giustizia sociale.

Dalla Rivoluzione francese in poi ciascuno di questi valori è stato visto non come prerogativa di una sola classe e limitato ad una determinata fase storica, bensì come un insieme di valori eterni, universali e non contraddittori tra di loro. Così i democratici potevano affermare a buon diritto che soltanto con l’uguaglianza si poteva realizzare la vera libertà e i socialisti che solo con la giustizia sociale si sarebbe potuta realizzare sia l’uguaglianza sia la libertà.

Sotto questo aspetto esiste una continuità dei valori europei, frutto dell’Illuminismo, maturati negli ultimi due secoli (fatti salvi quelli filosofico-giuridico-religiosi maturati nelle fasi storiche precedenti) ed espressi dall’ideologia liberale, democratica e socialista (di cui quella comunista può essere considerata una variante).

2) La realizzazione di questi valori si è poi scontrata con il fatto che la classe sociale che ne era di volta in volta portatrice s’inserì gradualmente nell’equilibrio di potere per tutelare i propri interessi specifici e per consolidare la struttura istituzionale che li garantiva. Avvenne così che l’ideologia che aveva animato i movimenti liberali, democratici e socialisti, una volta che questi erano entrati nella logica del potere costituito (quello nazionale), finiva per diventare un instrumentum regni delle classi al potere**.

Il radicamento di questi valori nel quadro di poteri nazionali esclusivi (all’epoca, a sovranità assoluta) determinò poi un’ulteriore conseguenza, quella dell’influenza decisiva della ragion di stato sull’ideologia. In altri termini, la posizione di potere nazionale nel quadro degli equilibri mondiali condizionò pesantemente la realizzazione dei valori di libertà, democrazia e giustizia sociale***. Fu così, ad esempio, che il principio di libertà, portato avanti dalla Rivoluzione francese, (e vista inizialmente dai popoli europei come “faro” del progresso), s’incardinò in un quadro istituzionale (lo stato-nazione) che, per “salvare la rivoluzione”, accentrò enormemente il potere all’interno del paese, sfociando prima nel terrore e poi nel tentativo egemonico di Napoleone di sottomettere l’intera Europa.

Un percorso non dissimile avvenne con la Rivoluzione d’Ottobre, anch’essa inizialmente vista dalle classi più deboli dell’Europa e del Mondo come l’inizio di una trasformazione della società e di un progresso generale nel nome dell’uguaglianza sociale. Ma, ancora una volta la ‘realizzazione’ di questo valore avvenne in un quadro istituzionale (il partito unico) che, sempre “per salvare la rivoluzione”, accentrò enormemente il proprio potere all’interno del Paese, sfociando così prima nel terrore staliniano, con l’eliminazione fisica degli oppositori (anche comunisti)**** e poi nella politica di potenza e di espansione verso l’Europa centrale.

3) Il pensiero politico federalista pone il nuovo valore della pace, vista nell’ottica kantiana non come tregua tra una guerra e l’altra, bensì come impossibilità di fare la guerra, grazie alla creazione di istituzioni politiche sovrannazionali che, togliendo agli stati la sovranità assoluta sulla politica estera e la difesa, di fatto li “disarma”. Il federalismo non si pone in contraddizione con il liberalismo, la democrazia e il socialismo, i cui valori di libertà, democrazia e giustizia sociale costituiscono il presupposto storico per la sua affermazione, in quanto libera unione di stati basata sul consenso liberamente espresso dei cittadini. A sua volta, il federalismo è il presupposto per la realizzazione compiuta del liberalismo, della democrazia e del socialismo perché è solo a partire dall’assenza della guerra tra gli Stati (cioè di quell’elemento demoniaco che devia ‘le rivoluzioni’, trasformandole in tirannidi) che è possibile pensare ad uno sviluppo pieno della libertà, della democrazia e della giustizia sociale.

4) La memoria storica dell’Europa unita sta dunque nel nesso tra i valori delle grandi rivoluzioni del passato che hanno affermato i valori della libertà, della democrazia e della giustizia sociale da una parte, e la pace come superamento della sovranità assoluta degli Stati. L’unità europea è stata la risposta alla catastrofe delle guerre mondiali: quei valori sono morti nei campi di battaglia in nome della ‘nazione’, prima ancora che nei campi di concentramento dei regimi totalitari. Il processo di unificazione europea può dunque rappresentare l’esempio storico in cui quel nesso si esprime e si può concretizzare compiutamente.

Se, allora, il superamento della sovranità nazionale assoluta rappresenta l’elemento fondante del processo di unità europea, allora si avrà memoria storica compiuta quando i popoli europei (tutti, anche quelli dei Paesi dell’Est Europa) leggeranno la loro storia come un insieme di fasi successive in cui le lotte per la libertà, la democrazia e la giustizia sociale – sia nelle loro vittorie (le rivoluzioni) sia nei loro drammi (i regimi dispotici) - sfociano poi nell’affermazione dell’unità politica.

È dunque l’idea del superamento dello stato-nazione - in quanto comunità esclusiva che ha portato alla guerra e ha impedito la piena realizzazione dei valori europei - che rappresenta il reale fondamento della nostra memoria comune.

È anche questo il messaggio che l’Europa deve dare anche al Mondo perché si realizzi, con la sua unità federale, la pace, condizione per la sua salvezza.


* Umberto Gentiloni, “Nazisti e comunisti spiegati ai ragazzi”, in La Repubblica, 24 settembre 2019.

** “Le stesse parole che anni prima avevano avuto un significato rivoluzionario ne acquisivano uno conservatore o reazionario: il liberalismo di coloro che durante la Terza repubblica, in nome della libertà, si opponevano alla riduzione a dieci ore della giornata lavorativa non avevano nulla a che fare con quello dei rivoluzionari dell’89” (Francesco Rossolillo, Il federalismo e le grandi ideologie”, in Il Federalista, 1989, riprodotto anche in “Tre introduzioni al federalismo”, ed. Guida, 2005, con saggi sullo stesso tema di Lucio Levi e Guido Montani.

*** La letteratura federalista al riguardo è notevole e la Collana “Biblioteca Federalista” de Il Mulino contiene tutti i testi dei principali autori: da Lionel Robbins a Luigi Einaudi, da Altiero Spinelli a Mario Albertini, da Immanuel Kant ad Alexander Hamilton, da Ludwig Dehio a Lord Lothian.

**** È illuminante la descrizione che fa Altiero Spinelli nella sua autobiografia (“Come ho tentato di diventare saggio”, Il Mulino, 1984) , nel capitolo “La rottura con il partito” (1937) in cui ricorda il contenuto del dibattito-scontro tra i militanti comunisti (Secchia, Scoccimarro, Amendola e altri) nel carcere di Ponza: “rilevavo che la dittatura del proletariato si era trasformata in dittatura del partito, poi del Comitato Centrale, poi personale di Stalin, che i soviet non esistevano in realtà più” e ancora “il comunismo …è la stessa religione politica della Repubblica di Platone e della Compagnia di Gesù di Sant’Ignazio, è l’ideale del Grande Inquisitore di Dostojevski; si tratta dell’ordine politico-religioso degli uomini che sanno e che perciò esigono il potere assoluto sui beni, sul corpo e sull’anima del resto dell’umanità, la quale non sa e perciò deve essere guidata con mano ferrea“; e infine “…mentire con me stesso, rinunziare alla libertà del mio pensiero, non è però mai stato scritto nel patto tra l’anima mia e il comunismo, ed è contro questo scoglio che ora fa naufragio la mia militanza con voi….La conclusione, cui non posso sottrarmi e che se per nulla al mondo vorrei rinunziare alla mia libertà, se l’ho difesa in me stesso contro i muri di pietra e contro quelli di idee, che mi circondano, se per essa ho accettato di distruggere tanta parte di me, devo volerla anche per il mio prossimo. Perciò, dopo dieci anni di riflessioni vi lascio e mi accingo a passare nel campo di coloro che non sempre riescono, ma almeno si propongono di limitare il potere, necessario ma demoniaco, dei governanti, di metterlo al servizio della comunità, di garantire la libertà dei cittadini”. Spinelli non tornerà più nel PCI, anche se venne eletto come “indipendente” nelle sue liste al Parlamento italiano e a quello europeo, perché, come scrisse nella risposta ad Averardi (1976) “da ormai 36 anni il mio impegno con l’azione, la parola e la penna è stato e continua ad essere per l’unità europea”.

Fonte immagine: Wikipedia (firma del Patto Molotov-Ribbentrop).

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