Quando penso al travagliato percorso che ha portato all’accordo sul Recovery Fund, e ai rischi che quest’ultimo sta correndo nel processo di ratifica che dovrà portare alla sua nascita, mi tornano spesso in mente i versi di Eugenio Montale: “Un imprevisto è la sola speranza”.
Poche parole per ricordarci che mentre siamo impegnati a discutere nei minimi dettagli i piani per quello che ci aspetta, affrontandolo secondo le regole consuete, in ogni momento potrebbe arrivare un imprevisto a sconvolgerli. E che quell’imprevisto non deve essere per forza un problema: al contrario, può rivelarsi “la sola speranza”.
In fondo è esattamente quello che è successo all’Unione Europea: a febbraio si preparava ad avviare una lunga Conferenza sul futuro dell’Europa dal percorso e dalle finalità incerte, e a metà luglio si è invece ritrovata con un primo accordo su debiti comuni tra i 27, in risposta a “un imprevisto” come la pandemia da Coronavirus.
Pochi mesi dopo ci ritroviamo in una situazione simile: stiamo dando per scontato l’arrivo di centinaia di miliardi, e la possibilità di spenderli al riparo da tempeste finanziarie e politiche, per rilanciare l’Europa verso le nuove generazioni. Ma il presentismo è un virus che dobbiamo imparare a temere, come quello in grado di riempire le terapie intensive in pochi giorni: genera una sindrome per la quale si è incapaci di ricordare com’era davvero il passato e di anticipare un futuro diverso da come sono le cose nel presente.
Il Recovery Fund non è ancora una realtà giuridicamente fondata, non sono definitivi i presupposti sulla base dei quali ne verrà concesso l’utilizzo, non lo è nemmeno la speranza che costituisca il primo nucleo di una futura unione fiscale e politica. Al contrario: vederlo come un’acquisizione certa, concentrandosi già da ora sui passaggi successivi, è la cosa che può mandarlo a sbattere contro qualsiasi ostacolo, facendo naufragare anche il carico di attese che porta con sé.
Forse però sarebbe più utile un imprevisto del genere, che una volta per tutte squarci il velo sull’assurdo meccanismo decisionale ancora necessario per far passare qualsiasi decisione importante per il futuro di mezzo miliardo di europei (e quindi per il mondo intero). Sarebbe “una speranza”, per far sì che gli Stati membri prendano atto che la loro stessa sopravvivenza, in un mondo popolato da idee nazionaliste, da guerre commerciali, da tentazioni neoimperialiste e revansciste, è messa a rischio dal feticcio dell’unanimità: che è indispensabile per decidere quando si è in due, ma antidemocratica quando si è arrivati a una partecipazione che sfiora il 15% dei membri dell’ONU.
Sarebbe “una speranza” perché allora non si potrebbe più tenere conto delle resistenze di questo o quel membro, animato o meno che sia da buoni propositi e legittime preoccupazioni: bisognerebbe essere costretti a superare il potere di veto una volta per tutte, rafforzando magari le maggioranze necessarie in alcuni passaggi, ma gestendo le decisioni politiche fuori da una logica puramente intergovernativa. Se oggi qualcuno volesse che l’Europa faccia davvero un passo avanti sulla strada dell’unità politica e fiscale, allora bisognerebbe augurarci “un imprevisto” sulla strada del Recovery Fund.
“Ma mi dicono
che è una stoltezza dirselo”.
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