Torniamo a parlare di come è possibile rilanciare l’Unione sulla scena internazionale

Il rilancio geopolitico per una Unione più forte

, di Ludovica Smargiassi

Il rilancio geopolitico per una Unione più forte
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Il tema del completamento del progetto europeo, con la realizzazione di una vera unione politica e di una sovranità condivisa, risulta più che mai attuale in un contesto globale sempre più fluido di tensioni e rivalità geopolitiche. In particolare, una politica estera e una difesa comuni rappresentano uno scopo essenziale per l’Unione europea. Ma non privo di contraddizioni e ambiguità.

Già dopo le elezioni europee del 2019 la Commissione aveva inserito tra le priorità della sua agenda strategica fino al 2024 l’impegno a costruire una solida politica estera e di sicurezza comune, per assumere un ruolo più attivo ed essere una voce più forte del mondo. In seguito, nel corso del 2020, lo scoppio della crisi globale economica e sociale dovuta alla pandemia ha reso ancora più impellente questa necessità. Gli sconvolgimenti da essa provocati al sistema internazionale hanno posto una questione: era (ed è) forse giunta l’ora del rilancio dell’Unione? Lo spirito di solidarietà e unità del quale gli Stati Membri hanno dato prova nella risposta alla crisi sembra direzionare la risposta al quesito in senso affermativo. Dopo gli eventi in Afghanistan delle ultime settimane, dal disimpegno statunitense al ritorno dei talebani, oggi si è aperto in modo prioritario il dibattito su come l’Unione europea possa porsi in maniera rilevante come attore geopolitico nel sistema internazionale, in grado di allineare il suo peso economico con quello diplomatico e potenzialmente militare.

Nel discorso sullo Stato dell’Unione 2021, lo scorso 15 settembre la Presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen ha ribadito come gli avvenimenti in Afghanistan siano sintomo di “un cambiamento più ampio nelle questioni di portata mondiale in un momento di transizione verso un nuovo ordine internazionale”, all’interno di “un’epoca di rivalità regionali in cui le grandi potenze stanno concentrando di nuovo l’attenzione l’una sull’altra”. La Presidente ha chiaramente affermato il bisogno di un’Unione europea della difesa, in grado di stabilire la stabilità nel vicinato, di far fronte alle nuove minacce ibride. Un’Unione che sappia combinare diplomazia e sviluppo, aspetti militari e civili, nella consapevolezza che “non esistono problemi di sicurezza e di difesa per i quali la risposta sia una minore cooperazione”.

La vicenda afghana in particolare mostra un mutamento nel paradigma di sicurezza internazionale, a venti anni dalle Torri Gemelle. E invita soprattutto l’Unione europea a riflettere: sul suo approccio alla politica estera di sicurezza e difesa; sulla sua proiezione internazionale, nel rapporto con gli altri attori globali. Sul primo punto, la riflessione si incentra sulla consapevolezza del legame tra sicurezza interna ed esterna. Gli eventi in Afghanistan riaccendono infatti il tema delle migrazioni. Questione che, già nel 2015, aveva messo a dura prova la solidarietà tra gli Stati membri e la stessa tenuta del progetto europeo. Fino ad oggi, l’Unione europea si è mossa nei confronti dell’immigrazione secondo un approccio securitario volto dell’esternalizzazione. Ma la percezione del fenomeno migratorio come una minaccia alla sicurezza e il finanziamento economico di Paesi limitrofi per non affrontare il problema sul suo territorio non rappresentano più una strada percorribile. L’Unione europea è invitata a ridefinire in maniera nuova il legame tra la sua dimensione interna e il mondo ai suoi confini, ad assumersi la responsabilità di interrogarsi sui suoi valori fondativi.

La vicenda afghana invita a riflettere anche sui futuri rapporti dell’Unione europea con gli Stati Uniti. Rispetto all’unilateralismo statunitense, l’Unione europea ha sempre prediletto un approccio multilaterale, basato sulla collaborazione con le organizzazioni internazionali, le Nazioni Unite, la NATO e altri attori rilevanti come appunto gli Stati Uniti. La presidenza Biden ha nutrito le speranze per un rinnovato multilateralismo, per un cambio di tendenza rispetto alle difficoltà presentatesi con la precedente amministrazione Trump. L’Afghanistan ha tuttavia rappresentato un freno verso questa direzione, al punto da spingere l’Unione europea a chiedersi come ridefinire l’alleanza statunitense. Una possibile risposta al quesito è l’autonomia strategica. Ciò non significa indipendenza, autarchia o unilateralismo, piuttosto, è la capacità di vivere secondo le proprie norme, leggi, regole. L’Unione europea è pronta a farlo ma senza agire da sola, nel rispetto del suo multilateralismo: un aspetto cruciale della sua identità interna ed esterna, che la spinge a collaborare con i propri partner principali.

La strada verso l’autonomia strategica dell’Unione è un percorso bidirezionale. Verso l’interno, l’integrazione europea ha permesso la creazione di un mercato unico prima, poi di un’unione economica e monetaria, fino alla promessa di un’unione fiscale e alla premessa iniziale di politica estera. Verso l’esterno, l’autonomia strategica rappresenta una necessità di fronte ai declino dell’ordine liberale internazionale le cui pratiche, norme, organizzazioni internazionali sono state costruite sul potere statunitense. Un potere che permane nelle capacità di proiezione internazionale dell’influenza economica e militare. Ma la supremazia degli Stati Uniti non è più incontrastata, né a livello economico, dove ormai il Paese è sullo stesso piano della Cina, né sul fronte politico, nel quale gli Stati Uniti rivelano un progressivo deterioramento del soft power e una tendenza isolazionista, che li spinge ad impegnarsi nel mondo principalmente quando sono in gioco i loro interessi strategici.

È quindi un’Unione autonoma quella che internamente protegge le sue norme e leggi ed esternamente agisce con altri attori nel contesto internazionale, che è in grado di ottenere tale autonomia strategica sia a livello politico che operativo. Per farlo, occorre la realizzazione di una difesa europea. Un progetto, questo, già presente nelle menti dei Padri Costituenti, quando l’organismo della Comunità Europea di Difesa fu previsto dal trattato firmato nel 1952 dai Paesi membri della CECA, mai entrato in vigore per la mancata ratifica della Francia.

La cessione di sovranità nazionale essenziale per una politica estera e una difesa comuni risulta però ancora oggi osteggiata e messa in secondo piano rispetto alla rivendicazione di egoismi e interessi particolaristici. Sicuramente sono stati compiuti passi importanti, come la Cooperazione strutturata permanente, il nucleo di Quartier Generale a Bruxelles per missioni civili e militari e il Fondo europeo per la difesa. Sono strumenti necessari ma non sufficienti ad assicurare l’autonomia strategica né una solida struttura di politica estera e di difesa.

Data la divergenza di interessi strategici tra gli Stati membri nel campo della sicurezza, una via percorribile potrebbe essere quella di un’integrazione differenziata. Servirebbe quindi partire da un gruppo ristretto di Paesi più volenterosi (Germania, Francia, Italia, Spagna) che stabiliscano distintamente i loro interessi nel settore della difesa. Da qui occorre proseguire con la realizzazione di meccanismi istituzionali adeguati, a partire dal superamento dell’unanimità del Consiglio, fino alla creazione di un Governo federale europeo con le competenze decisionali in materia di politica estera e di sicurezza, che garantisca il funzionamento dello strumento di difesa e l’efficacia a livello militare. Il futuro della politica estera richiede quindi una linea comune, che combini una politica di vicinato ambiziosa, un efficiente sistema di gestione delle crisi, un coordinamento nell’azione esterna. L’Unione europea dovrà scegliere il suo ruolo futuro ed essere in grado di far fronte alle nuove sfide globali.

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